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La Fondazione Dalmine: intervista a Stefano Müller e Carolina Lussana
di Giuseppe Paletta
realizzata il 25 luglio 2007
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Le ragioni costitutive
La governance e il rapporto con l’impresa
Lo staff e le collaborazioni
Gli aspetti gestionali


G.P: Quando nasce la Fondazione che è portatrice di una complessità che avete evidenziato, l’impresa genera un soggetto che è proprio, ma anche diverso da sé. Impresa e Fondazione differiscono nella struttura giuridica e nella missione. Ebbene, come si sono strutturati i rapporti iniziali tra i due soggetti e come sono variati nel tempo?
S.M.: Credo che alla Dalmine si sia registrato un felice caso di assenza di problemi. Il progetto è partito da due fattori: cercare una persona che se ne facesse carico e cercare la forma – associazione, fondazione… c’erano due o tre possibilità, studiare un attimo la forma. Direi che il primo passo è stato il felice incontro o rincontro con Carolina Lussana che aveva già lavorato per quell’archivio...
C.L.: Consultandolo, in realtà, quindi come cliente.
S.M.: … e che mettendo mano a queste carte storiche, importanti, ha convinto il dr. Rocca che esse avevano bisogno di un intervento concreto di lavoro anche molto fisico, avevano bisogno di impegno e di attenzione. Direi che ha convinto subito il dottor Rocca – che ha manifestato sin dall’inizio un forte interesse personale alla Fondazione, accompagnata da una presenza diretta – e me, che ero stato incaricato di attivare questo progetto, per cui abbiamo convenuto che Carolina fosse la persona giusta e l’abbiamo coinvolta. Devo dire che si è rivelata una decisione straordinariamente giusta perché fin qui siamo arrivati e siamo pienamente soddisfatti di quello che sta crescendo. Dal punto di vista societario abbiamo costituito questa Fondazione che è gestita da un consiglio di amministrazione di tre persone.
G.P.: Dunque l’impresa è socio unico della Fondazione.
S.M.: Socio unico, quindi diciamo, in modo molto semplice, che si discutono insieme a Carolina i progetti e i programmi con un respiro biennale, dato che molte cose in un anno non si mettono insieme. Gli indirizzi strategici partono dal recupero di ciò che sono la storia e l’archivio, ma vanno anche più in là toccando la cultura dell’impresa e l’orizzonte più ampio attorno a questa. In questa fase la dottoressa Lussana e la Fondazione si stanno anche occupando di altre carte del gruppo in giro per il mondo e quindi la Fondazione è diventata anche un po’ la testa di quest’attività diciamo archivistica, e di cultura d’impresa. La Fondazione non rappresenta l’unico braccio operativo del Gruppo sul terreno culturale: abbiamo altre attività, come la Fondazione Proa a Buenos Aires che si occupa di arte contemporanea, siamo presenti come soci fondatori nella Galleria d’arte moderna contemporanea di Bergamo. Ma la Fondazione è il luogo della cultura d’impresa vera e propria, il luogo della cultura d’impresa…
C.L.: Intesa come memoria…
S.M.: … non solo come memoria, ma forse anche qualcosa di più: della cultura relazionata direttamente alla natura dell’impresa. Poi, dato che ce ne occupiamo assieme, lei da una parte e io dall’altra, questi progetti alla fine funzionano anche perché la gente si parla, va d’accordo, ha gli stessi intenti. Alla dottoressa Lussana è stato affidato il compito di concentrarsi in massimo grado sul patrimonio storico. Ora, man mano che questo viene ordinato e reso fruibile anche on-line possiamo iniziare a guardare a quello che c’è fuori. Ma non è il nostro progetto passare i prossimi cent’anni a rimuginare sulle stesse carte. Anche perché poi i pensieri che uno fa sulle carte che ha, non si autogenerano.
C.L.: Sì, anche perché i destinatari verso i quali noi ci rivolgiamo non sono solo gli studiosi di storia dell’impresa, quindi è nostro interesse principale anche affrontare questo patrimonio che è l’archivio con ottiche diverse da quelle strettamente legate alla storia, quindi sviluppare filoni di approfondimento che ci possano condurre anche fuori dalla storia Dalmine, della Dalmine tout-court. Come già abbiamo fatto, la fotografia, l’architettura, il rapporto tra arti visuali e cultura industriale che poi possono condurre davvero a relazionarsi anche con istituzioni che si occupano di altri temi rispetto ai nostri originari.
G.P.: Quindi il focus dell’attenzione è l’incontro culturale con la comunità?
C.L.: Esatto.
S.M.: Sì, oggi diciamo tra le nostre attività culturali le due più importanti sono certamente la Fondazione e la Gamec, una galleria d’arte moderna e contemporanea gestita da una associazione costituita tra il comune di Bergamo e la Dalmine. Fino ad ora ci siamo detti che la Fondazione guarda indietro mentre avanti guardiamo attraverso l’arte contemporanea, però anche questo non è un assoluto. Direi anzi che la Fondazione Dalmine comincia a palesarsi come interlocutore culturale a pieno titolo. D’altro lato non è nostra intenzione forzare questo concetto fino a perdere alla Fondazione le sue caratteristiche di archivio d’impresa. Quindi è un percorso in cui va bene allargarsi, va bene uscire, ma non perdere un’identità che potrebbe in futuro conoscere una ulteriore espansione che però oggi non siamo in grado di prevedere. Perché il fatto rilevante è che Tenaris si è ingrandita acquisendo altre società in giro per il mondo che non hanno la storia in comune delle prime tre, che costituiscono il nucleo centrale. Quindi, quale ruolo potrà avere la Fondazione in questo scenario più ampio? Sinceramente non lo sappiamo, ma credo che questo tema dovrà far parte di una riflessione con il dottor Rocca.
G.P.: Il punto è quindi quello della concentrazione di nuovi patrimoni storici in parallelo con l’espansione multinazionale dell’impresa.
S.M.: Sì, anche se essendo imprese che fanno lo stesso prodotto e nella maggioranza dei casi hanno tecnologie consimili, ci sono sempre punti di contatto. Non è una situazione in cui uno compra una fabbrica di scarpe in Scozia e il giorno dopo chissà cosa: c’è un filo rosso e spulciando tra le carte lo si individua. Però questo tema fino dove arriverà?
C.L.: In questo momento invece l’Argentina e l’Italia sono i due paesi nei quali ormai le relazioni sono strutturate e si sono già strutturate anche attraverso la curatela da parte nostra di una mostra storica sui cinquant’anni dell’impresa argentina che abbiamo fatto nel 2004 e poi altri lavori più specificamente archivistici sulle carte di Buenos Aires.
G:P.: È comprensibile, anche perché lo sforzo principale di un soggetto multinazionale è quello di favorire l’integrazione e il veicolo culturale è uno dei potenti elementi di unificazione del sistema.
C.L.: E dall’altro gioca il fatto di aver sviluppato qui, in questi ormai otto anni e mezzo di lavoro delle professionalità che talvolta in altri paesi è meno facile reperire e che vale la pena impiegare anche in altre realtà per avviare processi analoghi. Il fronte degli archivi d’impresa per esempio in Argentina ha uno scenario meno avanzato rispetto a quello europeo.
S.M.: Sono ben pochi i gruppi e le imprese che possono vantare una continuità così estesa.
G.P.: Infatti il problema grosso è la discontinuità…
S.M.: E poi devo dire che io sono convinto che questi progetti funzionano per le persone che le animano. È il lavoro di Carolina che determina la presenza di una leadership, perché la leadership uno se la conquista se ha qualcosa da dire e da fare più degli altri.
G.P.: Torniamo ora al tema della governance. La Fondazione è una onlus a socio unico e lei ne è consigliere.
S.M.: Siamo in tre.
G.P.: … tre consiglieri designati dall’impresa. Non è mai stata avvertita l’esigenza di aprire la Fondazione al territorio, come ad esempio fece Giovannino Agnelli alla Piaggio?
S.M.: Da noi in passato non se ne è mai parlato né ne vedrei la necessità oggi.
C.L.: Nei fatti, questo è già avvenuto.
S.M.: Trovo molto più interessante lavorare su progetti come il “faccia a faccia” in corso, che avere in consiglio questo o quel professore. Non ne vedo il vantaggio. Essendo oltre tutto in una fase, come dicevo, di consolidamento del lavoro di questi otto anni di lavoro e di riflessione sul dove andare, è anche possibile che le domande non trovino le loro risposte su questo territorio. Sicuramente le risposte avranno a che fare con le scelte di Tenaris: se la Fondazione fosse un organismo che è qui, solo qui e starà qui, allora potrei far posto a persone nuove che mi aiutino a riflettere perché avrei definito su che cosa voglio riflettere. Noi siamo ancora in una fase in cui preferiamo sentirci liberi, magari sbaglieremo, ma preferiamo così. Sul piano operativo, invece è importante preoccuparsi di avere degli interlocutori con cui valutare il valore delle decisioni prese, questo è un altro discorso. Vuol dire sviluppare rapporti con il territorio e questa rete di interazioni con altri protagonisti della cultura d’impresa aiuta a percepire se si sta intraprendendo una strada sbagliata. Bisogna vedere cosa fanno gli altri e come essi ci giudicano, occorre sapere se il proprio lavoro è apprezzato o non è apprezzato. Ma se in questo momento dovessi anche dire apriamoci, portiamo dentro qualcuno, non saprei chi scegliere. Chi mi può aiutare a capire come declinare la nostra realtà? Una realtà che cambia così rapidamente? È chiaro che non vogliamo chiuderci neanche su noi stessi e dunque per me è importante interagire con il territorio attraverso la nostra attività e la partecipazione alle attività che il territorio può proporre. Inoltre per territorio si può intendere anche qualcosa di più esteso, come il circuito dei musei d’impresa o delle associazioni che operano nell’ambito della cultura d’impresa.
C.L.: All’interno dei quali volentieri allora entriamo. Ma è un po’ anche la filosofia, in generale, che io stessa ho respirato da quando lavoro per la Fondazione Dalmine, che è quella proprio di un orientamento a un obiettivo specifico, a un progetto specifico. Non esistono partner in astratto, esistono nella misura in cui tu definisci un oggetto, un obiettivo, un argomento, un tema, uno sviluppo e allora hai, insieme alla costruzione delle condizioni per raggiungere questo obiettivo, anche la scelta – sempre bilaterale e reciproca – di un partner. In questo senso, tutte le iniziative che in questi anni abbiamo sviluppato le abbiamo sempre fortemente costruite: vuoi quelle più locali con il comune di Dalmine, vuoi quelle con il comune di Bergamo che ci ha ospitato ogni anno quando abbiamo realizzato o promosso mostre di una certa importanza, che meritavano una platea non legata esclusivamente al territorio circostante la fabbrica. Quindi la partnership è nelle cose e nei progetti. Questa è una filosofia che direi anch’io ho imparato, venendo invece da un ambiente che era forse più quello legato all’accademia, all’istituzione pubblica, dove la definizione dei partner viene prima quasi. Invece qui abbiamo sempre lavorato fortemente orientati al cosa fare, come e con chi.
S.M: Anche perché lo stile della casa è abbastanza informale, poco istituzionale e invece più orientato al progetto, alla realizzazione.
C.L.: E all’eccellenza. Che quindi ti spinge a relazionarti a partner…
S.M.: Sì, a me non piace mai dirlo, però se c’è una serie A dobbiamo cercare di starci. Poi non è che basta dirlo, devono essere gli altri a riconoscerlo, però sicuramente siamo contenti del cammino che è stato fatto. Credo che oggi la Fondazione Dalmine sia una realtà e in fondo è partita da zero. Voglio dire, l’anno scorso era il centenario della Dalmine. Avvenimento per noi molto importante, per cui la Fondazione ha giocato un ruolo straordinario, straordinario per importanza e credo anche straordinario per il lavoro che ha fatto. Beh, è chiaro che questo lavoro può in un certo senso avere distratto certe attenzioni, perché alla fine è stato proprio un braccio operativo di realizzazione di mostre, di convegni, di libri, ecc., per cui un percorso lineare teorico poteva anche essere ristretto, però mi è sembrato anche essenziale che il protagonista di molte iniziative organizzate per il centenario fosse la Fondazione, non solo nell’illustrare la propria storia, ma anche aiutando l’impresa su progetti che guardavano un po’ più in là. Però, adesso, quest’anno chiaramente sarà un anno un po’ più di riflessione: qualcosa è stato tralasciato, qualche programma è in sospeso e questo è un anno in cui saremo un po’ più concentrati su noi stessi.
C.L.: Un anno di consolidamento di pratiche interne e ovviamente di prosecuzione del lavoro sull’archivio e sulla biblioteca, che è un lavoro importante.
S.M.: E di ampliamento degli spazi fisici. Noi abbiamo un progetto di raddoppio degli spazi, che comporta l’acquisizione alla Fondazione della palazzina bianca a nord est, vicino alla torre di raffreddamento degli anni cinquanta. Non è antichissima, ma è diventata un simbolo dell’impresa, date le dimensioni. In questo modo, la Fondazione arriverà a occupare due delle tre ville.
G.P.: Ancora una domanda sulla governance: questa istituzione non dispone di un comitato scientifico?
C.L.: Abbiamo puntato all’agilità: a domanda diretta, risposta diretta.
G.P.: Direttissima.
C.L.: Ne abbiamo parlato inizialmente, ma la stessa risposta che abbiamo dato per il punto precedente vale anche per questo secondo aspetto. Ci sembra importate costruire gruppi di lavoro ad hoc – e ciò vale anche per la consulenza scientifica – che siano fortemente centrati sui singoli progetti. Avendo iniziato a lavorare sull’archivio, abbiamo ritenuto che lo staff messo in piedi da me e dai collaboratori che pian piano ho coinvolto nel lavoro, fosse già sufficientemente specializzato nel core business iniziale. Viceversa, man mano che abbiamo programmato e progettato mostre e iniziative, ci siamo rivolti a gruppi di studiosi diversificati. Anche per costruire una rete di relazione varia e diversificata che secondo me è un elemento di ricchezza.
S.M.: Il compito che si riserva il consiglio di amministrazione è quello di definire il programma e i progetti: dopo di che per ogni progetto occorre creare comitati, staff e ciò che serve a dare una credibilità riconosciuta al progetto stesso. Avere un comitato sarebbe stato complesso anche perché, guardando ai lavori svolti, avremmo dovuto allargarlo agli architetti, a esperti del mondo dell’arte e della fotografia. Alcune collaborazioni poi sono fisse, a cominciare da quelle con la Gamec con cui evidentemente il rapporto è più organico: se mi chiedete chi è il nostro consulente artistico nel campo del contemporaneo, io cito Giacinto di Pietrantonio, il direttore della Gamec, che è bravissimo, e chiaramente vado da lui e da Maria Cristina Rodeschini [l’altro direttore della Gamec] per avere un primo confronto.
C.L.: Il modello organizzativo è focalizzato sullo stile dell’impresa e aggiungerei, perché è doveroso, su un’ampia delega al direttore che si muove rapidamente avendo la possibilità di un confronto frequente e anche informale con i propri consiglieri. Tali condizioni compensano l’assenza di altri soggetti che possano contribuire al disegno delle linee operative o delle linee scientifiche. Al di là dei momenti istituzionali, che ovviamente ci sono nel corso dell’anno, la costruzione dei progetti è veramente frutto di un confronto continuo.
S.M.: Ecco direi che Carolina ha centrato il tema: c’è un’autonomia della Fondazione, perché facendo cose completamente diverse, deve avere una sua autonomia altrimenti il grande animale con le sue procedure la stritolerebbe. Le grandi imprese si strutturano giustamente per fare quello che devono fare e, in un certo senso, anche espellere gli anticorpi. Io mi sono sempre occupato di temi poi legati ad attività non core business, e ovviamente quando uno è in questa posizione si rende conto che l’impresa tende naturalmente, attraverso la proceduralizzazione dei suoi processi, a dire: «Ma tu non centri niente». Quindi è giusto che la Fondazione abbia una sua autonomia altrimenti dovrebbe passare il tempo a spiegare perché fa le cose in un modo diverso da come le fa il tubificio. Però, al di là di quello che è un aspetto formale-organizzativo, la Fondazione non è avvertita come un corpo estraneo, ma come una parte integrante dell’impresa, anche come luogo fisico, forse perché è un luogo fisico anche piacevole o forse perché Carolina è un’ottima anfitriona. Noi ogni tanto veniamo qui a fare le riunioni, quando non vogliamo che ci distraggano. Qui si può ragionare un po’ in pace, facendo magari un po’ di brain storming; invadiamo la Fondazione, ci mettiamo intorno a questo tavolo e questo è già un modo per approcciare in modo diverso un problema, perché questo luogo ci porta ad essere meno tecnici.
G.P.: Il pensiero creativo.
S.M.: Un pochino più creativo. Sono fuori dalle sacre mura e quindi anche questa cosa fisica aiuta: la porta grande di questa sala guarda verso il fuori, la porta piccola verso il dentro. Casualità, era già così, però alla fine anche questo elemento può trovare un significato.
G.P.: D’altro canto i luoghi abitati dagli intellettuali contengono sempre un po’ di eresia e questa, quando si è in giacca e cravatta, non sempre è consentita.
S.M.: Certo, il direttore si prende i propri rischi nelle scelte e viene valutato per il risultato del prodotto, del progetto, e di come l’ha gestito. Però se funziona – e io credo che stia funzionando – questo stile dà molto empower alle persone e voglia di fare le cose.

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