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Un dibattito dalle radici profonde
di Stefano Zara
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La responsabilità sociale dell’impresa non è che la scoperta relativamente recente di un tema antico, presente in natura da quando l’impresa, almeno nella forma moderna, esiste. Come insegna Schumpeter, l’impresa per produrre ricchezza sovverte l’ordine naturale delle cose e quindi crea turbolenza nell’ambiente con il quale entra in contatto. L’impatto sull’environment non è mai neutro ed è sempre stato oggetto di dibattiti accesi anche in tempi remoti.

A tal proposito ricordo di aver letto un serrato confronto fra gli illuministi e Stendhal avvenuto nei primi anni dell’Ottocento che aveva per oggetto l’utilità o meno dell’impresa (anzi dell’industria) ai fini “sociali”, dando a quest’ultimo termine un’accezione assai ampia, non dissimile da quella oggi in uso.
La novità riguarda quindi, più che il tema e il dibattito sul tema, il tentativo in atto di trasformare la responsabilità sociale in valore consapevolmente perseguito, praticato, reso esplicito e trasparente, attraverso l’utilizzazione di un’ampia strumentazione che va dall’adozione di codici etici e carte dei valori, alle certificazioni che possono riguardare un’ampia gamma di oggetti (dagli stessi codici al bilancio sociale a quello ambientale etc.).
Questi due piani che, per semplificare, definirei dei fini (dell’impresa) e degli strumenti (per certificarli e misurarli), non dovrebbero mai essere confusi. Soprattutto l’attenzione ai fini non si deve esaurire e vanificare nel largo dispiegamento degli strumenti. Non si può infatti dimenticare che imprese ultracertificate, a titolo d’esempio ricordo la Enron, si sono rese responsabili di scelleratezze veramente clamorose, perseguite sul piano penale.
Questa constatazione non deve peraltro far volgere al pessimismo cui sembra incline un grande studioso della materia, il Prof. Guido Rossi, che in molti suoi scritti, il più significativo dei quali porta il titolo eloquente “Il conflitto epidemico” (ed. Adelphi),   ritiene strutturalmente inconciliabili etica ed affari. Sostiene infatti che né la via legislativa né quella delle certificazioni né tanto meno quella delle autorities possano approdare a risultati affidabili al riguardo auspicando, come unica soluzione, l’avvento di un nuovo rinascimento, di un “soprassalto individuale e collettivo” di moralità.

Personalmente pur apprezzando le analisi di Rossi sono più orientato a ritenere che tutto, ( il dibattito sull’impresa, le leggi e gli strumenti per governarla e governare la competizione e il mercato), possa concorrere a formare una coscienza collettiva che, assumendo l’irrinunciabile centralità dell’impresa ai fini dello sviluppo economico, ne assicuri non solo la compatibilità ma la felice sinergia con le finalità sociali e ambientali.
Naturalmente il percorso è impervio e lungo, perché la globalizzazione lo ha reso largamente transnazionale, ma se non verrà compiuto l’impresa e lo stesso progresso rischiano di non legittimarsi e dunque di implodere in un futuro imprevedibile e quindi inquietante.

Quello che sta accadendo ormai da diversi anni è che la finanziarizzazione dell’economia e la sua globalizzazione hanno ormai sopravanzato la capacità di regolazione e controllo dei singoli Paesi. Infatti, se risulta difficile tenere sotto controllo a livello internazionale il commercio delle merci è ancor più complesso monitorare le transazioni finanziarie. Fenomeni come quello della delocalizzazione produttiva e, ancor più, come quello dei paradisi fiscali costituiscono modalità oggettive per eludere vincoli e regole. E’ questo l’ampio territorio che bisogna fare oggetto del massimo impegno politico e civile, per colmare quel gap etico che in questi ultimi lustri si è andato ampliando.
Il soprassalto auspicato si deve rapidamente trasformare in una presa di coscienza forte e decisa, da parte dei singoli governi nazionali e dell’Unione Europea dell’importanza di portare a convergenza etica e affari, etica e impresa, produzione e sostenibilità sociale ed ambientale.

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