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La Fondazione Dalmine: intervista a Stefano Müller e Carolina Lussana
di Giuseppe Paletta
realizzata il 25 luglio 2007
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Le ragioni costitutive
La governance e il rapporto con l’impresa
Lo staff e le collaborazioni
Gli aspetti gestionali


G.P: Quali sono le esigenze che hanno portato alla nascita della Fondazione?
S.M.: Nella storia della Dalmine c’è un archivio - un patrimonio di documenti e fotografie - che prima dell’acquisizione della Dalmine da parte del gruppo Techint era stato ordinato parzialmente. Quando nel 1996 ci fu la privatizzazione, una delle prime cose che notammo era quest’archivio era in condizioni precarie e questa constatazione è stata la molla che ha fatto partire un progetto che comunque sarebbe partito, ma che probabilmente è stato accelerato dalle condizioni di fatto.
Mettere in salvo l’archivio, dotarlo di una sede e immaginare la Fondazione sono state, assieme agli investimenti sui macchinari, tra le prime decisioni prese con la privatizzazione dal dottor Paolo Rocca [ceo di Tenaris e presidente della Fondazione Dalmine]. Recuperare la storia di Dalmine che si incrociava dall’inizio con la storia di suo nonno [Agostino Rocca] e con la storia della Siderca, del gruppo Techint in Argentina era proprio il punto di partenza. Questa è stata la decisione dell’imprenditore, dopo di che il nostro compito è stato di cominciare a mettere in atto quelle decisioni individuando la forma giuridica, le persone e tutto il resto.
G.P.: Quindi esisteva già una riflessione sull’importanza della storia dell’impresa e, dopo la privatizzazione, questo stesso processo ha avuto un’accelerazione.
S.M.: Sì, probabilmente prima l’accento era al 100% sulla storia della Dalmine. Poi l’accento si è spostato sulla storia di Agostino Rocca elemento unificante, fil rouge tra le varie storie della Dalmine, della Siderca, della Tamsa, del gruppo Techint. Poi è nata Tenaris, poi Tenaris si è espansa a società che non avevano questo elemento di unificazione, ma sicuramente… Forse i due elementi trainanti sono la storia della Dalmine come impresa e la volontà di ricostruire la storia di Agostino Rocca formatosi qui come amministratore delegato e, prima ancora, come giovane tecnico.
C.L: Se posso aggiungere, l’incipit era nell’archivio, più che nell’interesse a sviluppare o a ricostruire sistematicamente la storia: c’era la materia prima. Per varie ragioni (anche legate al fatto che gli anni 1990-95 non sono stati un periodo facile per l’Ilva, allora controllante la Dalmine) al di là di episodiche occasioni di celebrazione dei novant’anni, anzi degli ottant’anni, non era ancora stata sviluppata un’iniziativa organica che utilizzasse l’archivio come occasione per promuovere iniziative culturali più continuative. È un po’ questa, forse, la differenza sostanziale: c’era in precedenza un’occasionalità di intervento ma non c’era una struttura dedicata.
S.M.: Beh, il gruppo Techint ha sempre avuto una forte attenzione ai fenomeni culturali: in Argentina, ad esempio, è presente in svariate iniziative. Chi conosce il gruppo Techint non si stupisce che l’intervento sull’archivio si ampli sino ad abbracciare un progetto che, nel tempo, cresce e si diversifica negli intenti.
G.P.: Ma esisteva in ogni caso, quasi come un fattore cromosomico, l’attenzione della famiglia alla dimensione culturale, è così?
C.L.: E direi anche l’attenzione alle carte d’archivio, perché allacciandoci e uscendo solo rapidamente dalla traccia che stiamo seguendo, lo stesso Agostino Rocca aveva un proprio archivio personale che ha curato, che ha riordinato e che poi ha reso accessibile al pubblico [depositato alla Fondazione Einaudi di Torino]. Quindi la sensibilità nei confronti della documentazione come memoria storica è riscontrabile all’interno dell’esperienza dello stesso Agostino Rocca.
G.P.: Per altro si tratta di un atteggiamento che mette in gioco la questione della referenzialità: dell’imprenditore: io metto a disposizione le carte perché ho consapevolezza di aver ben vissuto e ben lavorato, dunque non temo che il mio operato possa essere giudicato. Di qui un atteggiamento referenziale non molto diffuso nel sistema imprenditoriale.
S.M.: Sì, ma c’è anche la cultura del dato che è una cultura molto forte da noi: l’aveva Agostino Rocca, l’aveva suo figlio Roberto, il papà [di Paolo]. Il dato può essere economico, può essere numerico, può essere di altra natura, ma c’è il dato ed esso costituisce un patrimonio che, se possibile, va conservato a futura memoria o a futuro utilizzo. È un modo di lavorare comune, diciamo.
G.P.: Dunque è lo stile della famiglia.
S.M: Sì è uno stile della famiglia, che poi è diventato uno stile manageriale. L’avvio di questo progetto culturale non ci ha stupito: con tanti anni di lavoro alle spalle mi sembrava del tutto logico. Poi c’è anche questa dimensione, questa Dalmine, questa strana mamma che veniva comprata dalla figlia, cioè c’è una storia divertente che non capita tutti i giorni, con dei personaggi che si sono sempre incrociati, non solo a livello del signor [Agostino] Rocca, ma anche a livello di tecnici. Era una convivenza, una comunione tecnologica che ha sempre accompagnato la Dalmine alla Siderca e alla Tamsa: questa gente si conosceva benissimo, le storie si intrecciano. Quando Carolina [Lussana] va indietro e ci porta le foto all’imbarco dei tubi, quei tubi andavano in Argentina a fare il gasdotto, il famoso gasdotto della pampa. Quindi, c’era anche molto interesse per rimettere insieme i pezzi di un puzzle che tutti sapevano esistere e di cui la prima fase è stata completata quest’anno con i libri dell’edizione del centenario.
G.P.: Quindi esisteva una rete di relazioni, di conoscenza e di fiducia amplissima.
S.M.: Amplissima, soprattutto a livello di tecnici, anche perché il mondo del tubo senza saldatura è un mondo di specialisti che si conoscono, si sono sempre frequentati attraverso le consulenze tecniche e gli interscambi.
C.L.: Inoltre quella della Dalmine degli anni cinquanta è un’esperienza di esportazione di una tecnologia, ma anche di un modello di relazione con il territorio che nell’Argentina dei primi anni cinquanta si radica, ma facendo riferimento a uno schema che era quello dalminese.
S.M.: Di Agostino. Quando noi, quando lei va in [Argentina dove ha sede una delle imprese Tenaris, la TenarisSiderca] i nomi poi sono cambiati, ovviamente il tempo passa e la storia cambia, ma la Siderca è nata come Dalmine Safta, poi come Dalmine Siderca e poi Siderca. Quindi il nome Dalmine c’è sempre stato.
C.L.: Il quartiere operaio della cittadina di Campana, quartiere operaio adiacente l’impianto Siderca si chiamava e tuttora si chiama Barrio Dalmine, nell’uso comune, perché ha mantenuto questo legame con l’origine.
S.M.: E sicuramente ricalca uno schema concettuale nato qua, una Dalmine che aveva costruito il quartiere degli operai, il quartiere dei dirigenti, la chiesa, il comune, la piscina…
C.L.: La foresteria….
S.M.: La foresteria… E anche là si vede una struttura simile.
G.P.: Quindi tutto questo generava i presupposti perché dopo il momento dell’incontro fosse semplice…
S.M.: Fosse semplice, e direi sentito un po’ da tutti. L’idea di rimettere un po’ d’ordine nella storia incuriosiva tutti. Incuriosiva la gente di qui, che probabilmente non conosceva bene l’evoluzione sudamericana e la gente di Siderca che sapeva, ma non in modo ordinato. Quindi, anche se la presenza di una fondazione culturale dentro uno stabilimento siderurgico in un momento di take-over – che è sempre un momento molto complesso – poteva sembrare una cosa strana, è sempre stata vissuta come una parte di un progetto. Non lo dico solo io che ne ho fatto parte fin dall’inizio: la Fondazione Dalmine non è mai stata vissuta dall’impresa come un corpo estraneo.
C.L: In questo ha avuto un ruolo l’affetto verso la storia della Dalmine e una vicinanza a vari livelli. Perché comunque il forte radicamento sul territorio ha generato un interesse, anche magari non scientifico, accademico, ma familiare, personale, biografico, individuale che ha fatto sì che un progetto come questo potesse anche essere ben accolto a livello di comunicazione interna e di comunicazione con il territorio.
S.M.: E poi ricorrono dei casi che forse non sono semplici casi. Il fatto che la Fondazione stia in un immobile in cui aveva abitato Agostino Rocca, beh è un caso perché l’immobile c’è ancora e perché era vuoto e stava cadendo a pezzi. Però poi in realtà, quando c’era da prendere una decisione, sembrava la decisione più ovvia partire da questo edificio e non da quello vicino, ecco. Voglio dire sono casi, che non sono casi. È dunque una storia che si ricompone anche in questi piccoli particolari, un po’ per casualità, un po’ per razionalità. A volte la razionalità è la capacità di ricucire le cose che si sono conservate un po’ casualmente.

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