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L’uomo a misura dell’economia
e della finanza

di Bruno Musso

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Il Punto

Restituire all’economia produttiva il naturale primato sulla finanza è oggi il nostro primo dovere in economia come in politica.

Del capitale e del profitto hanno lungamente diffidato tanto la cultura di sinistra che quella cattolica. La nuova alleanza è sorta con il riconoscimento al profitto di un importante ruolo di solidarietà:
  • solidarietà nell’impresa per il profitto reinvestito;
  • solidarietà nella società civile per la quota cui una fiscalità equa e ben impiegata assicura un’efficace destinazione;
  • solidarietà intergenerazionale per quel profitto del nostro lavoro che capitalizza nuove imprese, restituendo alle generazioni future ciò che le passate ci hanno prestato.

Tutto ciò inerisce al lavoro e il lavoro appartiene all’uomo, il quale lo fa partecipe, insieme con l’impresa e l’economia produttiva, della dimensione etica e comunitaria che gli è propria. Perciò l’impresa è «comunità di scopo e di destino».
«L’economia produttiva obbedisce a regole fondamentalmente comuni a quelle dell’etica»
Perciò l’economia produttiva obbedisce a regole fondamentalmente comuni a quelle dell’etica. Da queste regole l’uomo si allontana spesso, talora gravemente; ma per farlo non può limitarsi a calpestare la propria coscienza, deve calpestare le stesse esigenze dell’impresa e dell’economia.

Altrettanto può dirsi della finanza finché questa resta una componente dell’economia produttiva e al suo servizio. Così era all’inizio. Col tempo, però, la finanza si è venuta emancipando diventando avulsa, autonoma e autoreferenziale e smarrendo la centralità dell’uomo fino a diventare amorale: non immorale, ma amorale, ovvero morale solo quando l’uomo la conduce lungo i sentieri dell’etica senza che lo esigano le sue regole di funzionamento.

È per questo che tanti gravi problemi ci vengono oggi dal dominio abnorme e crescente della finanza che, oltre all’economia, pretende di governare la stessa politica.

C’è la speculazione finanziaria che, grazie anche a discutibili transazioni virtuali, è giunta in taluni casi estremi a piegare persino le Banche centrali di paesi industrializzati: a questa si oppone efficacemente la moneta unica europea, se non altro per ragioni dimensionali.

Ci sono grandi scelte dello sviluppo internazionale largamente sottratte al controllo delle genti. Ad esse concorrono la finanza privata – globalizzatasi assai prima degli altri fattori dello sviluppo – e organismi sopranazionali: la prima è incontrollabile per sua stessa natura, i secondi rivendicano invece una sorta di rappresentatività mondiale – si pensi al Fondo monetario internazionale – salvo sottrarsi, di fatto, ad ogni controllo democratico e a costituire esempi emblematici di autoreferenzialità. Sono accomunati da una pericolosa «libertà» dal rigore dell’economia. Un esempio tra i molti possibili: consideriamo i paesi più poveri, tralasciando quelli in cui la povertà del popolo convive con risorse importanti del paese, gestite ad altri fini da governi certamente non espressivi della volontà popolare. Il debito estero affligge anche i primi senza che essi riescano davvero a liberarsene. Ebbene, potrebbe esistere un tale debito se creditrice, in luogo della finanza, fosse l’economia produttiva, dal momento che nessuna impresa correttamente gestita costruisce i suoi bilanci su un cumulo di crediti inesigibili?

D’altra parte, senza guardare così lontano, sono gli stessi mercati borsistici a fare problema. L’impresa industriale, infatti, si misura su orizzonti di un anno nel «breve» e di tre-cinque anni nel «medio-lungo», ma la finanza pretende di giudicarla a «breve» sui tre mesi e a «lungo» su sei-nove mesi, così costringendola a osservare il proprio futuro con lenti da presbite. E le cose peggiorano col «gioco in borsa», in forza del quale i mezzi forniti all’impresa a titolo di capitale, e quindi con presunte caratteristiche di stabilità, vanno e vengono per comparazioni istantanee tra aziende o, peggio, per attese emotive sulle tendenze di mercato; cose tutte largamente estranee all’andamento dell’impresa.

Dov’è l’indirizzo morale che l’uomo è chiamato a imprimere ad una finanza amorale?
«Dov’è l’indirizzo morale che l’uomo è chiamato a imprimere ad una finanza amorale?»
Dove i segni di una qualche educazione a comportamenti responsabili verso l’impresa e, dunque, verso il lavoro? Chi ci ricorda che l’acquisto di azioni sul mercato, pur non comportando vincoli giuridici di permanenza, costituisce impegno morale verso il lavoro che così finanziamo e che solo la nostra necessità o il demerito dell’impresa, non la mera ricerca del nostro massimo utile, dovrebbe autorizzarci al disimpegno?

Restituire all’economia produttiva il naturale primato sulla finanza è oggi il nostro primo dovere in economia come in politica. Difficile, difficilissimo, eppure richiesto a ciascuno dalla legge morale.

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