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Nuovo codice, archivi d'impresa e imprenditori. È tutto chiaro?
di Maria Grazia Pastura

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il testo

1. L’archivio d’impresa nel Nuovo Codice
2. L’imprenditore nel Nuovo Codice
3. Il Nuovo Codice e la commistione documentale


1. Come si inquadra l’archivio d’impresa nel Nuovo Codice dei beni culturali?


In un intervento pubblicato qualche tempo fa su questa rivista Paola Carucci, lamentando la scarsa lungimiranza del legislatore, dice una cosa esatta: gli archivi d'impresa sono, a tutti gli effetti, archivi privati, soggetti alla relativa disciplina. E dunque l’archivio d’impresa diviene un bene culturale dopo la dichiarazione di interesse storico particolarmente importante (il vincolo, infatti, nella disciplina del codice, non è solo ricognitivo, come per il passato, ma costitutivo della qualità “culturale” del bene). Unicamente per gli archivi di imprese pubbliche che, per le note e ormai lontane vicende di riassetti istituzionali e di dismissioni, sono state trasformate in società per azioni, una  disposizione introdotta dal Codice per i beni culturali e per il paesaggio stabilisce l’ultrattività del regime proprio degli archivi pubblici (e dunque di più stringente tutela) per la parte di archivio prodotto precedentemente alla privatizzazione: il che, per un aspetto, mette al riparo questa documentazione da utilizzazioni “disinvolte”, se mi si passa il termine, da parte delle Nuove imprese; dall’altro pone seri problemi interpretativi in ordine a quella parte di archivio che si incrementa dei documenti prodotti dal nuovo soggetto privato: a quale regime sarà assoggettata? Stando alla lettera della legge, la parte d’archivio prodotta dopo la privatizzazione resta assoggettata al regime proprio dell’archivio privato dichiarato d’interesse storico particolarmente importante, sempreché intervenga il vincolo. Ma pensiamo alle Ferrovie, passate, in pochi anni, da Azienda autonoma dello Stato ad Ente di diritto pubblico e infine a S.p.a: quid iuris, ad esempio, per la documentazione relativa alla rete e alle infrastrutture, certamente molto risalente nel tempo, ma che si incrementa dei documenti prodotti dalla Società – meglio dire dalle Società che si sono susseguite  in una serie assai serrata di successive riforme – a governare questo aspetto dell’attività aziendale: sarà per metà pubblica e per metà privata? E quando potrà intervenire la dichiarazione per la parte nuova? Mentre l’archivio si produce, oppure dopo che sia trascorso il tempo necessario perché le carte non siano più utili per l’amministrazione corrente dell’impresa? Le Ferrovie, poi, sono solo l’esempio preso a prestito per descrivere un problema che si estende a numerose altre ex Aziende di stato che hanno governato, nel secolo scorso, settori vitali e strategici dell’economia italiana: dei nomi a caso (ENI, IRI, Telecom...) danno la dimensione dell’enormità del tema proposto. Devo dire che si è ultimamente registrata una maggiore attenzione delle Nuove imprese verso il proprio patrimonio archivistico – considerato strategico nell’ambito della politica aziendale. Tuttavia io credo che la novità normativa in commento – l’unica consentita ad una compilazione, qual è anche il codice, a legislazione vigente – debba essere rafforzata da qualche correttivo, che impegni le Nuove imprese ad una tutela più stringente anche per la documentazione di nuova formazione. Al momento, come ho detto, tutto si gioca sulla dichiarazione, con tutti i se e i ma legati ad un vincolo che colpisce l’archivio “privato” nel suo farsi. Ma, anche a voler prescindere da questa non banale difficoltà ( la giurisprudenza ha dato ragione all’Amministrazione archivistica, confermando i vincoli impugnati) occorre sottolineare che il regime dell’archivio privato vincolato consente operazioni che, per l’archivio pubblico, sono vietate.

Ne cito alcune: l’archivio pubblico è inalienabile; l’archivio privato no; il soggetto pubblico deve provvedere alla perfetta costituzione del proprio archivio fin da quando vi mette mano: il privato no.

Purtroppo in Italia non ha avuto fortuna quel concetto tanto caro ai francesi, per il quale la qualità di un archivio si evince dall'evidenza pubblica della funzione svolta dal suo creatore. Il che, naturalmente, non implica che tutti gli archivi d’impresa debbano essere considerati pubblici, anche nella prospettiva di una modifica normativa che adotti la disciplina più rigorosa per le grandi imprese che hanno raccolto l’eredità di quelle pubbliche e continuano a conservare, come quelle, un grande potere di controllo di settori strategici dell’economia del nostro Paese.


2. Come appare l’imprenditore nel Nuovo Codice e quali sono le ragioni dell’impianto sanzionatorio che lo equipara al responsabile di un archivio pubblico?
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La risposta è in quel che ho già detto. L’imprenditore, anche l’imprenditore monopolista, è, per l’ordinamento italiano, un soggetto privato.
Per quanto riguarda l’apparato sanzionatorio, io non direi che, dal punto di vista penale, l’imprenditore sia equiparato al responsabile di un archivio pubblico. Le sanzioni si applicano ad una condotta illecita, e la condotta illecita è quella che contravviene agli obblighi imposti a tutela del bene culturale. Poiché gli obblighi dei proprietari, possessori o detentori degli archivi privati sono diversi da quelli dei responsabili degli archivi pubblici – ho fatto sopra due esempi -  anche le condotte offensive sono diverse. Particolare è il caso, sopra esposto, dell’imprenditore che gestisce una archivio pubblico, che sarà tenuto alle condotte conseguenti.
Le disposizioni che possono ingenerare questa idea, sono quelle volte a punire chi non  chiede le autorizzazioni previste per legge “prima” di intervenire sul bene culturale del quale abbia la proprietà, il possesso o semplicemente la detenzione (mi riferisco agli ordinamenti, ai restauri, agli spostamenti fisici dell’archivio ecc.). Queste disposizioni sanzionano una condotta potenzialmente offensiva (di pericolo) rispetto al bene culturale (archivio pubblico o archivio privato dichiarato di interesse storico particolare importante): stabiliscono cioè che se il soggetto che detiene a qualsiasi titolo l’archivio lo riordini o restauri senza aver preventivamente chiesto l'approvazione del progetto (che può essere anche una descrizione di massima delle operazioni che si intendono fare) all'autorità di vigilanza (leggi: le Soprintendenze archivistiche), oppure, nel caso di urgenti interventi, non provvede nel più breve tempo possibile (il codice fissa questo tempo in dieci giorni??) a comunicare le operazioni fatte alla stessa autorità, è soggetto a sanzione; come pure è soggetto a sanzione se sposta stabilmente il bene senza preventiva autorizzazione (ma per il privato si tratta di una semplice comunicazione dello spostamento). Non intendo ripercorrere qui l’intera disciplina sanzionatoria. Desidero solo osservare che si tratta di una innovazione introdotta dal Testo unico nel 2000 e confermata dal Codice, che estende agli archivi una tutela piena, perché assistita da sanzioni, che per gli altri beni culturali è in vigore dal 1939. Voglio anche aggiungere che la legge archivistica del 1939 era pur’essa dotata di apparato sanzionatorio, che non fu riprodotto nel DPR 1409 del 1963: e tuttavia la legge del 1939 fu del tutto abrogata. Anche su questo aspetto Paola Carucci, nell’articolo sopra citato, è critica: che bisogno c'è, dice, di chiedere l'autorizzazione, sanzionando per di più la condotta illecita? non basta un avviso di cortesia?
Io sono del parere che l'avviso di cortesia non basti: non vedo perché anche per l’ordinaria manutenzione di un manufatto di interesse storico particolarmente importante (ad esempio per pulire un quadro, non necessariamente un Raffaello, o manutenere un palazzo, non necessariamente di architetto famoso) o per spostare una collezione di quadri dagli ambienti in cui si trova, il proprietario (o possessore o comunque detentore) debba chiedere l’autorizzazione all’autorità di vigilanza e per restaurare un archivio possa fare di testa sua, magari danneggiando irrimediabilmente il bene: ed assicuro che non è un’ipotesi di scuola; oppure (come spessissimo è accaduto in passato) spostare da un  locale idoneo – per microclima e attrezzatura di salvaguardia - un archivio riordinato e sistemato (talvolta con il contributo dello Stato) e portarlo in cantina per fare spazio al pianoforte e alla poltrona. Non dico che non si possa spostare un archivio, ma si deve mettere l'autorità di vigilanza in condizione di valutare la congruità del luogo in cui si trasferisce: altrimenti, ci sono sempre gli Istituti di conservazione per degnamente conservare il bene. Di qui la sanzione, che si è rivelata uno strumento utilissimo di salvaguardia del bene in numerosissimi casi (parlo, naturalmente, degli  ultimi sei anni) non perché sia stata applicata, ma perché esiste, e dunque scoraggia le condotte illecite.
Ma vorrei invitare i lettori a farsi a loro volta una domanda: possiamo fare graduatorie d'importanza tra categorie di beni culturali? Non si tratta di una domanda oziosa, perché la possibilità di operare in questo modo fu esaminata sia in seno alla Commissione che si occupò di redigere il Testo unico sia dalla Commissione che stese la bozza del Codice. Ma il legislatore delegato ha valutato (e respinto) questa ipotesi, ed ha optato per una definizione unica di bene culturale, identificandolo in quello che sia riconosciuto di interesse storico particolarmente importante e riconducendovi tutte le tipologie protette: tra queste gli archivi, pubblici e privati. Ha poi elencato non categorie concettuali, ma una serie di beni che ricevono tutela parziale, ma non sono beni culturali, perché ad essi non è riconosciuto questo interesse, che è immanente alla fisicità della cosa. E’ la valutazione di questo interesse e il vincolo che ne consegue che costituisce lo status del bene (che sia un quadro, una collezione, un monumento, un manoscritto, una biblioteca, un archivio) con qualche eccezione, poiché alcuni beni culturali sono tali ope legis. L'archivio pubblico fa parte di quest’area di tutela extra ordinem, poiché per esso sussiste una presunzione di interesse storico particolarmente importante, fin dal momento della sua formazione.  Di qui una serie di obblighi, che vincolano il suo creatore. Questo non accade per gli archivi privati, che, come ho detto, divengono beni culturali dopo il vincolo: ed è da quel momento che insorgono i relativi obblighi nel soggetto che ne ha la responsabilità. 
Non mi sembra di sbagliare se dico che è eccessivo tutelare in questa forma gli archivi d’impresa, con l’eccezione delle imprese alle quali ho fatto cenno sopra.
Ma che poi, una volta intervenuto il vincolo, l’imprenditore debba rispettare le norme che la legge pone a tutela del bene culturale, mi sembra sacrosanto; come giudico sacrosanto il sistema di sanzioni penali e amministrative che colpisce le condotte illecite.
D’altra parte,  io credo pure che chi ha la sensibilità di accettare o addirittura provocare una dichiarazione di particolare importanza per il proprio archivio, lo fa per ragioni "aziendali" e ha tutto l'interesse e la volontà di tenere l’archivio come un gioiello aziendale. Mi consta che gli editori hanno generalmente grande cura, ad esempio, per la biblioteca storica, e interesse relativamente scarso per le carte amministrative e contabili, che però, per lo storico, sono di gran lunga più importanti della biblioteca.
 Si tratta di coltivare, presso le imprese, una diversa cultura dell’archivio. Sostenere la conoscenza del patrimonio culturale delle imprese equivale a diffondere la cultura della conservazione.
In questa direzione il Centro per la cultura d’impresa, ma anche la Fondazione Ansaldo,  hanno fatto e stanno facendo molto. Molto stanno facendo le Soprintendenze archivistiche, che hanno avviato sul territorio nazionale vasti censimenti di archivi imprenditoriali.
Il vero problema, lo sappiamo bene, è quello di sostenere l’impresa, nei momenti di difficoltà, nell’opera – forse non prioritaria nella crisi – di curare l’archivio. L’idea a lungo vagheggiata di costituire gli archivi territoriali per ricevere e conservare - anche temporaneamente, finché la crisi non sia risolta – gli archivi d’impresa è un’idea corretta e generosa, che in altri Stati europei ha dato risultati apprezzabili e che è stata proposta e realizzata in Italia proprio dal Centro e dalla Fondazione Ansaldo.  Come sempre, è un problema di risorse. Possiamo augurarci che, dopo tanti anni che se ne discute (era il 1998
quando Pino Paletta portò il tema al Convegno nazionale degli Archivi, a partire dalle esperienze del Centro; e poi, insieme, lo portammo in altri incontri e convegni),  si trovi il modo per diffondere il modello in Italia.


3. Il Nuovo Codice è sufficientemente adeguato a riconoscere la commistione documentale (archivi e prodotti) tipica dell’impresa spesso riflessa nella coesistenza di archivi e musei? E come si ripartisce la vigilanza su beni culturali così diversi?
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Il Codice non scende così nel dettaglio e, soprattutto, questo nodo si scioglie non a livello normativo ma, piuttosto, a livello concettuale, teorico. Come ho detto, il codice ha un approccio unitario e univoco al bene culturale, dal punto di vista della definizione,  ma poi la disciplina di dettaglio marca le differenze tra tipologie di beni culturali, con particolare riferimento agli archivi. Il codice però non dice – e non poteva certamente dirlo – di quali tipologie documentarie l’archivio debba comporsi. E’ la teoria archivistica che riconduce all’archivio tutti i documenti (qualunque sia la loro forma e la materia di cui sono fatti) che concorrono a “documentare”, per l’appunto, l’attività dell'Ente, pubblico o privato, della famiglia, della persona
Nell'impresa, come è ovvio, la commistione tra tipologie documentarie è la norma: dai documenti cartacei, ai disegni tecnici, alle fotografie, ai prodotti (giornali, libri, manufatti, ecc.).  Il concetto di archivio, frutto dell’attività d’impresa, può abbracciare tutte queste diverse tipologie, perché tutte concorrono a documentare i percorsi aziendali. Ho fatto, per l’impresa editoriale, il caso della biblioteca storica che, rispetto ad un giornale, sarà l’emeroteca storica: entrambe sono parte integrante dell’archivio, perché documentano l’attività d’impresa. Come fanno parte dell’archivio di un’impresa teatrale i bozzetti dei costumi, i disegni realizzati per la scenografia, i testi delle opere rappresentate, le sceneggiature, le fotografie e, perché no?, gli abiti di scena, insieme con i documenti, cartacei o non, relativi all’amministrazione del teatro e agli spettacoli allestiti una stagione dopo l’altra. Ciò è vero anche se gli oggetti appena citati siano stati “musealizzati”. La loro diversa collocazione, infatti, non è sufficiente a sciogliere il vincolo che li lega al resto della documentazione.
Voglio ricordare che lo straordinario archivio della casa editrice Ricordi, che concorreva anche all’allestimento teatrale in occasione della rappresentazione dei melodrammi, dei quali pubblicava il testo musicale, conserva tutte queste tipologie di documenti.
Io non credo che ci sia un problema di rapporti tra Soprintendenze per la vigilanza su questi complessi documentali. Quando su un oggetto in sé considerato insistono competenze diverse (penso alle fotografie, per esempio, o ai modelli degli edifici, alle pellicole cinematografiche ecc. ) il problema si può porre: non si pone quando si è in presenza di un archivio che, per rimanere nell’esempio, conservi anche un’importante raccolta fotografica, o un cospicuo numero di modelli di edifici, spesso presenti negli archivi delle imprese edili o ancora negli archivi degli studi di architettura, o un complesso di pellicole (come nel caso delle imprese cinematografiche) o tutti questi oggetti insieme.
La Soprintendenza di riferimento è quella archivistica. Nulla impedisce che, ad iniziativa di quest’ultima, sia coinvolta un’altra Soprintendenza di settore, affinché sia più articolata l’azione di tutela. In qualche caso che conosco ciò è capitato, senza alcun conflitto di competenze. Certo, le leggi viaggiano sulle gambe degli uomini: il tutto si riduce, alla fine, ad un problema di leale cooperazione e di cortesia istituzionale.

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