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Intervista ad Alessandro Papetti
di Anna Maria Stagira
(realizzata il 19 marzo 2005)
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Prima parte
Seconda parte
Terza parte


A.M.S.:
Sono ormai numerosi i cicli di opere che lei ha dedicato all’archeologia industriale in Europa. Quando è nato il suo interesse verso questi soggetti?

A.P.: Diciamo che l’interesse per l’archeologia industriale c’è un po’ sempre stato da quando ho cominciato a dipingere gli interni, credo a partire dal 1986.

A.M.S.: Quindi circa dieci anni prima della mostra di Lecco interamente dedicata a Interni di fabbrica...

A.P.: La mostra di Lecco è stata un’occasione per raccogliere queste opere nella stessa esposizione e in uno spazio pubblico; mi piaceva l’idea che non avesse un taglio solo mercantile. È stata un’idea di Barbara Cattaneo e di Oreste Bellinzona, che per un anno mi ha accompagnato in giro a fotografare i vari interni e spazi industriali, ottenendo i permessi, che, come è noto, non è facile avere. E quindi è stata una bella occasione per me perché, al di là della mostra, ho raccolto tante fotografie.

L’interesse per l’archeologia industriale però nasce molto prima, con pochi quadri. La mostra è stata, invece, la prima occasione in cui ho affrontato quasi per un anno intero questo genere di pittura. Comunque non c’è stata una motivazione particolare: sicuramente mi hanno colpito sempre gli spazi industriali, quelle poche volte che ho avuto modo di vederli dall’interno. Li sentivo posti di grande suggestione.

A.M.S.: Gli spazi industriali come posti di grande suggestione: cosa intende?

A.P.: Suggestione non solo pittorica, ma anche emotiva. Nel senso che sono luoghi dei quali ne subisci le conseguenze, oltre che il fascino. Hanno una specie di sacralità...anzi, più che sacri, sono mistici; quasi come cattedrali. Quando entro in uno di questi spazi, ho una forte percezione di una mia modificazione a livello emotivo. Se entro in uno spazio industriale gigantesco mi sento in relazione con questo spazio e, nello stesso tempo diverso da come sono entrato. Magari l’intenzione di trasmettere in questi quadri questa sorta di modificazione interiore c’è sempre stata ma forse c’è stata ancor prima di quegli anni, quando ho cominciato a dipingere per la prima volta le figure in uno spazio – prima dipingevo le figure, poi ho cominciato verso il 1986 a dipingere solo interni e ho tolto le figure. Quando le ho reinserite, esse erano ormai modificate in quanto le avevo adattate a questi nuovi spazi che stavo dipingendo, con una visione grandangolare.

Sicuramente avevo bisogno di un pretesto molto forte: così come adesso lo sono i cantieri navali, allora il pretesto era quello di trovare un soggetto che potesse rappresentare a livello emotivamente forte questo mio spazio interno….e quindi lo spazio industriale si prestava perfettamente.

Però sia che gli spazi fossero abbandonati o che non lo fossero l’uomo che in essi ci lavorava non l’ho mai messo perché diventava semplicemente illustrativo e non mi interessava. L’uomo si presuppone e che ci sia stato, lo vedi dalle tracce che ha lasciato: però non c’è, non ci sarà mai nei miei quadri il soggetto che lavora.

A.M.S.: Gli interni di fabbrica erano quindi un pretesto per rappresentare con forza emotiva il suo «spazio interno» e non certo l’uomo. Mi chiedo se cambiava qualcosa per lei se gli interni fossero dismessi o in produzione.

A.P.: Alcuni di questi spazi erano anche in produzione. Ho avuto la fortuna di vedere spazi in produzione che erano antichi, che avevano questo fascino, a differenza di altri freddissimi, asettici, che sembravano cliniche svizzere, dalle quali risultava difficile anche tirar fuori i soggetti e lì sono caduto più sul particolare, la macchina.

A.M.S.: E dalle macchine quali suggestioni ha colto?

A.P.: Alle volte vecchi macchinari sembrano quasi delle figure totemiche, enormi, delle sculture meravigliose. Ho visto vecchie macchine veramente gigantesche abbandonate, o perlomeno fuori da queste vecchie industrie, che dovevano essere buttate o portate via. Sembravano delle sculture davanti alla piazza della cattedrale: ma meravigliose! Anche perché poi non ne comprendi il significato: io non so a che cosa servisse la macchina, io vedo solo una serie di curve, di forme, d’ingranaggi. Tra l’altro, anche lì, sembra incredibile ma c’è uno stile nella macchina, nel disegnarle; questi macchinari che dovevano essere soltanto utili in fondo avevano però anche una linea particolare e rispecchiavano un certo periodo. Non sapendo a che cosa servissero per me erano delle forme, delle forme stupende.

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la fabbrica
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  La rappresentazione dell'industria: interni di fabbrica a Lecco
di Barbara Cattaneo
  La fabbrica, casa dell'uomo
di Geno Pampaloni
(da Civiltà delle macchine, II, 1953)
 
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