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Intervista ad Alessandro Papetti
di Anna Maria Stagira
(realizzata il 19 marzo 2005)
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Prima parte
Seconda parte
Terza parte

A.M.S.: Quindi ciò che avverte molto è il fascino di spazi e macchinari industriali antichi. Li avverte anche come luoghi e mezzi che raccontano l’uomo e il suo tempo?

A.P.: Sono siti archeologici, della tua anima, perché poi tu vai a trovare tutte queste tracce. A parte che sono sempre stato affascinato da tutto quello che si va sgretolando o è costruito a metà, dal non compiuto o in un senso o nell’altro. Ci puoi tirar fuori tanto di tuo, perché poi lo reinterpreti, lo fai rivivere perché lo rivivi dentro. Evidentemente qualcosa di tutto questo è già dentro di te, altrimenti non t’interesserebbe. Entri in un ambiente industriale e dici: che desolazione! e te ne vai via. Però c’è qualcosa che ti appartiene già. E così appunto con queste forme, con queste tracce, con questi pezzi di ferro abbandonati. Non lo so, ho quasi la sensazione alle volte di violare spazi un po’ sacri; vai lì e ti metti a fare un quadro con qualcosa in cui la gente ha vissuto, ha lavorato. Ma non è tanto perché penso: chissà quali storie sono nate qui dentro, chissà l’operaio che vita avrà fatto, non è tanto quello. È tutto un insieme…è difficilissimo spiegare. Sono cose che appartengono a qualcosa che è meglio che io non sveli a me stesso perché dovrei fare un lavoro molto analitico, invece preferisco pescare nel caos e riuscire a tirare fuori una suggestione, un’emozione. L’analisi svela le emozioni, te le sta a spiegare, per cui è difficilissimo dare risposte su queste cose. So che dipingo una figura e lì evidentemente in quel momento ho bisogno di entrare in relazione con me stesso. Dipingo un interno perché ho bisogno di entrare in relazione col mio fuori, col mio contenitore. È indubbio che, cosa che forse a molta gente non fa piacere, soprattutto a molti scrittori, ogni opera è autobiografica. Secondo me è inevitabile, perché sei tu che la fai. Perché ho scelto quel soggetto quel giorno e non un altro? Perché quel giorno c’era l’urgenza di entrare in relazione con una parte di me che in un altro modo non si poteva esprimere. E quindi per forza è autobiografica ma, come molte cose di noi, è difficile da vedere. Siamo bravi a vedere quelle degli altri…e noi per le nostre ci mettiamo una vita e a volte non le vedremo mai.

A.M.S.: Alcuni critici hanno sottolineato come i suoi quadri con soggetti industriali sembrino delle «visioni». Mi viene in mente ad esempio le serie di quadri Officina Renault del 2004 dove questi interni abbandonati da anni sembrano come rischiarati da una luce innaturale. Lei che ne pensa?

A.P.: Di questo forse non me ne rendo conto. Io parto da un soggetto però mentre dipingo non mi preoccupo di rispecchiarlo fedelmente, per cui procedo in modo molto emotivo, molto gestuale, con una pittura veloce che si deve risolvere senza troppe riflessioni. Quindi il fatto di far cadere la luce in un certo posto piuttosto che creare una luce di un certo tipo penso che sia una cosa assolutamente e puramente non voluta e che mi viene fuori istintivamente. Quindi non c’è una risposta, non riesco a dare una spiegazione; non c’è un significato, comunque.

A.M.S.: C’è il fine di documentare?

A.P.: No, assolutamente.

A.M.S.: Prima accennava alle fotografie scattate durante i suoi sopralluoghi e dalle quali trae ispirazione per le sue opere.

A.P.: Sì, ad esempio quando ho scattato le foto alle Officine Renault di Ile Seguin ci ho messo due anni per avere i permessi. Ho fotografato questo sito che di solito è infotografabile, non so perché: forse perché Pinault ne sta facendo il suo museo, ma anche perché è diventata una questione politica, perché c’è stata una lotta di piazza, manifestazioni contro la privatizzazione. Comunque, era proibito andarci e io quando ho fotografato le Officine ho avuto il piacere di essere uno dei pochi, se non altro penso l’ultimo a fotografare questo interno. Poi ho scoperto esserci tantissimi altri ragazzi che clandestinamente hanno fotografato questo posto e all’inaugurazione a Parigi ho conosciuto molti di loro che sono riusciti ad andare magari di notte, con la barca e approdare sull’isolotto, con tutti i rischi conseguenti. Ma il mio interesse non era documentaristico. Non volevo dire: allo stato attuale le Officine sono in questo modo; questo m’importa relativamente.

A.M.S.: Le fotografie dalle quali trae ispirazione le ha scattate sempre lei visitando i siti?

A.P.: Al di là della mia esperienza diretta in questi luoghi e delle fotografie che ho fatto, se trovo uno spunto interessante nelle fotografie di altri, lo utilizzo. Poi trasformo tantissimo questi spazi e li trasformo in un’altra cosa ancora. Mi è piaciuto andarci in questi posti e l’esserci andato è più importante della fotografia che ho fatto. Perché la foto che ho fatto io equivale alla foto che ha fatto un altro; certo, a livello di suggestione se ci sono anche stato è diverso. Però può darmi anche grande suggestione l’immagine. A volte è così difficile avere i permessi per fotografare gli interni: così ho anche una grande raccolta di testi e di immagini su questi temi e utilizzo anche le foto di altri, anche foto storiche.

A.M.S.: Per anni ha dipinto esclusivamente interni industriali. Più di recente tra i soggetti ha introdotto anche gli esterni: è stato un passaggio?

A.P.: Sì, è stato un passaggio che è ancora in fieri. Il tramite che poi ho usato ma non abbandonato è stato sicuramente il tema dell’acqua, almeno penso. Da quando ho cominciato a capire che qualcosa si muoveva a livello interiore portandomi verso questa suggestione dell’acqua, ho impiegato 4-5 anni prima di riuscire a dipingerla. È come se io prima dovessi arrivare ad una consapevolezza diversa di me stesso: poi ho dipinto tantissimo i corpi nell’acqua e questo è stato per me un passaggio perché l’acqua è un qualcosa di meno solido che mi ha aiutato a uscire fuori. Non è un caso che poi dopo l’acqua abbia dipinto i miei primi esterni e abbia dipinto, legando sempre all’esterno, l’industria e l’acqua, il cantiere navale. Adesso che ci sto lavorando da qualche anno capisco che il passaggio è stato quello: nel momento in cui lo facevo non lo comprendevo.

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