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M. Montemaggi e F. Severino, Heritage marketing. La storia dell’impresa italiana come vantaggio competitivo
Milano, Franco Angeli, 2007, pp. 159, € 18,00
Recensione di Vittore Armanni

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«Il marketing è essenziale al successo di un prodotto industriale. Se i bisogni non si convertono in desideri, nessuna attività può aver luogo, così almeno affermano i sacri testi. E perché metterli in dubbio? E, soprattutto, perché metterli in dubbio io? Non si mettono già abbastanza in dubbio da soli?» I rapporti tra intellettuali e marketing non sono mai stati particolarmente amichevoli, come testimoniava Oreste del Buono qualche anno fa commentando gli effetti devastanti di una goffa e malintesa religione del marketing che investì l’editoria italiana tra la seconda metà degli anni settanta e gli anni ottanta.
Non è improbabile che a qualche lettore di Heritage marketing. La storia dell’impresa italiana come vantaggio competitivo possano ripresentarsi i dubbi di del Buono, che peraltro si prese la briga di leggere i sacri testi, nel momento in cui si comprende che gli alfieri del marketing nostrano hanno preso coscienza dell’importanza del patrimonio storico dell’impresa attraverso lo strumento (verrebbe da dire la clava) dell’heritage marketing, un’arma letale che trasforma la memoria in «killer application del marketing aziendale» (così recita, con autentico sprezzo del ridicolo, il pezzullo in quarta di copertina).
Va da sé che è difficile prendere sul serio un volume che si presenta con credenziali così anabolizzate e che, consapevolmente o inconsapevolmente (ma propenderemmo per la seconda ipotesi), vorrebbe far riflettere gli imprenditori, i manager, gli amministratori e forse anche gli operatori culturali, sulla centralità della cultura d’impresa, o meglio, come recita il sottotitolo, sulla storia dell’impresa italiana come vantaggio competitivo. Che il significato dell’espressione “cultura d’impresa” possa essere oscuro a molti tra i soggetti che nell’impresa ci lavorano non si può certo negare, ma che sia il marketing a offrire gli strumenti più opportuni per riportarla alla luce e innescarla sembra un ulteriore passaggio niente affatto scontato.
Come si arriva dunque al trionfo dell’heritage marketing nel libro di Severino e Montemaggi? Anzitutto spiegando al lettore, nell’introduzione, che questo strumento innovativo «non [è] stato ancora sufficientemente compreso e sviluppato in Italia» (e forse un motivo ci sarà…), e individuando nella storia d’impresa, che nell’opinione degli autori non è stata ancora opportunamente valorizzata, l’ambito sul quale concentrare l’attenzione. Si tratta di un approccio empirico, come più volte dichiarano Severino e Montemaggi, che fa riferimento e si nutre, nella seconda parte del volume, di alcune realizzazioni ritenute particolarmente significative (Piaggio, Ferragamo, Guzzini, Pirelli, Dalmine ecc.).
Naturalmente bisogna dimostrare la validità del metodo, e dunque, conviene anticipare, non può esserci spazio per un approccio critico e scientifico che dia conto non solo delle esperienze di successo, ma anche dei fallimenti (per esempio le decine di archivi che, dagli anni ottanta ad oggi, sono stati costretti a chiudere o a ridimensionarsi pesantemente). Al lettore, tuttavia, sarà subito evidente che il volumetto deve promuovere un metodo, non porsi domande che possano instillare il beneficio del dubbio.
Tra le due parti di cui si compone il volume la prima, affidata a Severino (Pensare l’heritage) delinea un percorso tripartito: sociologia dei consumi, archivi d’impresa, musei d’impresa. L’autore ci conduce per mano nei meandri della sociologia dei consumi, che notoriamente può teorizzare tutto e il contrario di tutto, mescolando onesti sociologi (alcuni molto di moda) con qualche pezzo da novanta (Hegel, Simmel, il povero antropologo Levi Strauss trasformato a p. 27 in Levi Stauss): inutile dire che l’accostamento provoca in più occasioni un lieve senso di vertigine.
Ma i problemi veri si palesano quando Severino si cimenta con l’archivistica d’impresa, materia della quale palesemente non è uno specialista, e lo fa aggrappandosi prudentemente ai testi sacri (Bonfiglio Dosio, Carucci, Messina, Vitali, per citare alla rinfusa).
È persino troppo facile, tuttavia, notare che l’autore non ha alcuna dimestichezza con i problemi concreti della gestione di un archivio: si comporta insomma come colui che ha letto un discreto numero di testi sulla navigazione a vela, ma non si è mai allontanato dal molo. Che dire infatti dell’assenza di un pur minimo accenno al tema dell’archivio del prodotto? In un volume che vorrebbe esaltare il ruolo della memoria così come s’incarna nell’archivio e nel museo d’impresa, come può sfuggire un aspetto così centrale?
Un altro aspetto non considerato da Severino, ma anche da Montemaggi nella seconda parte del volume, è il problema dei diritti. Siamo assolutamente certi che l’impresa possa disporre liberamente del proprio patrimonio senza porsi alcun problema di corresponsione di diritti agli artefici di opere dell’ingegno o ai loro eredi? Che possa, per fare un esempio, concedere la pubblicazione a stampa del carteggio tra un imprenditore e un designer senza avvertire gli eredi del secondo? Gli autori ci lasciano con questo dubbio.
E purtroppo ci si imbatte anche in un infelice specchietto sulle «principali organizzazioni che promuovo (sic) la tutela, la valorizzazione e la diffusione degli archivi d’impresa» (p. 38) basato su dati non aggiornati («Archivi e imprese» non esiste più da dieci anni, sostituita da «Imprese e storia») e su omissioni anche di un certo rilievo.
È anche vero che, concentrati come sono sul museo aziendale, gli autori non possono dedicare troppe pagine all’archivio. Purtuttavia l’archivio, come ancora troppo pochi hanno compreso, costituisce il prerequisito più qualificante per allestire un museo aziendale provvisto di una missione culturale che vada oltre la mera collezione di oggetti. L’archivio è in poche parole essenziale per la costituzione di un museo d’impresa, come lo è, ancora di più, per il dispiegamento del ruolo sociale dell’impresa e per la realizzazione di un percorso che non contempli solamente creazione di profitto. Il concetto di “museo” viene invece descritto con un excursus storico ed epistemologico che annoierà la maggior parte degli imprenditori, non foss’altro perché già dispongono dell’importante volume di Massimo Negri.
La seconda parte (Organizzare l’heritage), affidata a Montemaggi, non risolve i difetti della prima, aggiungendone di nuovi. Chiunque abbia praticato la storia economica e sociale del nostro paese negli ultimi due secoli, potrebbe rimanere a dir poco sconcertato dal tentativo di sintesi storica operato da Montemaggi (soprattutto alle pp. 82-86), infarcito di concetti a effetto il più delle volte imprecisi.
Rispetto alla prima parte compaiono nel testo alcuni box di casi aziendali (si tratta d’interviste a responsabili di fondazioni, musei o archivi), che però risentono in modo evidente di un atteggiamento acritico, per non dire apertamente elogiativo, deprivato da riflessioni di carattere generale non solo sui successi, come si è già anticipato, ma anche e soprattutto sulle criticità, che come è noto non mancano neppure nell’ambito dei musei d’impresa. Scomparso l’approccio scientifico, siamo ora investiti dalla tipica koiné da ufficio stampa (prestigioso, mitico, storico, il merchandising che, a p. 150, profuma di passato).
Tutto sommato era più divertente L’uomo di marketing e la variante limone di Walter Fontana, un ex pubblicitario capace di non prendersi troppo sul serio.

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