english version
home
editoriale
primo piano
scheda
ica/sbl
recensioni
link
autori
archivio
credits
primo piano

Una giornata su Cultura, comunicazione e impresa alla Fondazione Isec
di Carlo Vinti

Ingrandisci
il testo
Lo scorso 16 giugno nella sede della Fondazione Isec di Sesto San Giovanni si è tenuta una giornata di studio sul tema Cultura, comunicazione e impresa in Italia.
Il seminario – organizzato da chi scrive con Giorgio Bigatti e promosso dall’Isec insieme all’Istituto lombardo di storia contemporanea, l’Università Iuav di Venezia e la città di Sesto – ha confermato l’interesse che investe ultimamente una stagione particolare del rapporto tra impresa e cultura in Italia: la stagione che va dal secondo dopoguerra al miracolo economico e vede la grande industria italiana coinvolgere intellettuali, artisti e designer nella costruzione della propria immagine pubblica.
Come ha ricordato Bigatti nel suo intervento di apertura, l’iniziativa ha fatto seguito a un primo seminario svoltosi a Venezia nel 2006, in cui si era dato spazio principalmente al punto di vista di chi studia le arti, l’architettura e il design. Nel seminario dell’Isec, l’idea è stata invece di invitare prevalentemente storici economici e dell’industria, studiosi dell’impresa e dei saperi ad essa legati, i quali hanno riflettuto da un’ottica diversa sulle strategie di comunicazione e la politica culturale di aziende come Eni, Finmeccanica, Italsider, Olivetti, Pirelli e La Rinascente.
Nel mio intervento della mattinata, sottolineavo come si possano rintracciare tre aspetti comuni all’esperienza di questi grandi gruppi imprenditoriali:

  1. un metodo di costruzione dell’immagine aziendale sviluppato prevalentemente dall’interno;
  2. il tentativo di trovare punti di raccordo tra le cosiddette “due culture”;
  3. e infine un rapporto controverso, non facile da decifrare, con i saperi professionali e le teorie aziendali provenienti dagli Stati Uniti.

Nel corso della giornata tali temi sono tornati ripetutamente al centro della discussione, evocati più o meno esplicitamente in tutte le relazioni che si sono susseguite.

Molti interventi, innanzi tutto, hanno fatto riferimento al forte controllo interno che le grandi aziende del dopoguerra mantennero sulle attività promozionali e le iniziative finalizzate a veicolare la propria immagine. Almeno fino alla metà degli anni sessanta, infatti, nelle maggiori imprese italiane resisteva la presenza di grandi dipartimenti denominati di volta in volta “direzione stampa e pubblicità”, “servizio propaganda” o semplicemente “ufficio pubblicità”. Per quanto non sia sempre facile trovarne traccia negli archivi aziendali, ricostruire nei dettagli l’attività di tali divisioni interne alle imprese è un’operazione che può rivelarsi particolarmente fertile. Fu al loro interno, infatti, che spesso si riuscì a mettere a punto una forte identità estetica e culturale dell’industria, sulla scia del modello olivettiano.
Donato Barbone, ad esempio, nel suo intervento dedicato alla Pirelli, ha fornito alcune informazioni di estremo interesse sugli anni in cui la “propaganda” dell’azienda milanese era diretta da Leonardo Sinisgalli e poi da Arrigo Castellani. All’epoca in Pirelli lavorava anche il poeta Vittorio Sereni, che era a capo dell’ufficio stampa e si occupava dei testi pubblicitari. Non stupisce allora che nelle pagine di un prezioso giornalino interno citato da Barbone si dibattesse sottilmente di arte e tecnica, soggettività e oggettività nel campo della comunicazione pubblicitaria.
Sul ruolo di alcuni specifici organismi della grande impresa italiana si è soffermato anche Fabio Lavista, che ha analizzato la creazione all’interno di gruppi come Olivetti, Iri e Eni di uffici studi che si occuparono, tra le altre cose, del tentativo di avviare una programmazione economica in Italia.

Se l’industria di quegli anni cominciava a sperimentare l’innesto in ambito aziendale di saperi umanistici come la psicologia e la sociologia, non c’è dubbio che nell’attività degli uffici pubblicità e relazioni pubbliche, così come nei dipartimenti che gestivano le relazioni con il personale, si mise in atto un ambizioso, generoso, quanto a volte ingenuo tentativo di raccordo tra cultura umanistica e cultura industriale, tecnica, ingegneristica. Si tratta di una prospettiva che era sorta certamente in Olivetti e che, nel secondo dopoguerra, grazie anche a personaggi come Leonardo Sinisgalli, era approdata in altri centri della grande industria italiana. A tal proposito Giuseppe Berta, nella sua relazione, ha ricordato che occorre rivedere drasticamente i giudizi superficiali che all’epoca parlavano di una sorta di corte feudale riunita intorno alla figura di Adriano Olivetti. Berta ha insistito sul rapporto non esornativo degli intellettuali nell’azienda di Ivrea, soffermandosi in particolare su un personaggio come Riccardo Musatti, uno degli uomini maggiormente partecipi del progetto comunitario, lucido interprete della questione meridionale e direttore negli anni sessanta dell’ufficio pubblicità Olivetti. Su una linea analoga, Franco Amatori ha sottolineato che La Rinascente, nel suo periodo di massima espansione del dopoguerra, promuoveva attivamente il design e faceva cultura organizzando celebri mostre all’interno dei grandi magazzini, proprio mentre metteva a punto efficaci strategie di razionalizzazione manageriale e introduceva innovazioni sul piano del marketing.
Molti altri, tra coloro che sono intervenuti, hanno messo in luce quanto in quella stagione si riuscisse, al di là del semplice arruolamento di scrittori e intellettuali in azienda, a realizzare uno scambio proficuo tra le “due culture”.

L’altro tema comparso frequentemente durante la giornata è il rapporto con i saperi professionali e manageriali statunitensi, sottoposti spesso a un processo di adattamento, rinegoziazione e reinterpretazione. Da questo punto di vista, sono sembrate significative le considerazioni di Sandro Rinauro sulle diffidenze e le resistenze da parte di dirigenti e imprenditori italiani nei confronti di metodi come le indagini di mercato. Il pregiudizio culturale che intellettuali e manager italiani condividevano nei confronti dei metodi quantitativi della statistica ha infatti un corrispettivo molto interessante nel dibattito che vide confrontarsi in quegli anni, da una parte, i sostenitori del marketing e delle teorie americane sull’advertising e, dall’altra, gli scrittori, gli artisti e i graphic designer che lavoravano negli uffici pubblicità della grande industria.
Sul piano dell’assimilazione delle culture provenienti d’oltreoceano grande importanza rivestì a partire dal secondo dopoguerra anche l’introduzione di discipline come le Human e Public relations. Esse svolsero un ruolo di primo piano, ad esempio, nel caso della siderurgia pubblica, cui si è dedicato ampio spazio nel programma della giornata con la proiezione del film Le mani! La testa! Gli occhi! Eugenio Carmi, un artista in fabbrica (Genova 2006). Alla Cornigliano di Genova acquisì subito estrema importanza l’idea, tipica delle relazioni pubbliche,  che l’azienda dovesse essere una “casa di vetro”, aperta allo sguardo del pubblico sia esterno che interno all’azienda. Questa operazione fu affidata fin dall’inizio non solo alle competenze giornalistiche dei membri dell’ufficio pubbliche relazioni ma anche alla regia visiva di un artista come Eugenio Carmi, ingaggiato nel 1956 da Gianlupo Osti, dirigente illuminato della Finsider e iniziatore di una linea che avrebbe portato, nei primi anni di vita della nuova società Italsider, alla creazione di grandi iniziative culturali come la mostra Sculture nella città tenutasi a Spoleto nel 1962.
I caratteri straordinari di tutta questa esperienza appaiono chiaramente nel video diretto da Fabio Bettonica (ideazione, testi e sceneggiatura di Eugenio Alberti Schatz e Valentina Carmi), che raccoglie le testimonianze, tra gli altri, di Gillo Dorfles, Umberto Eco e Arnaldo Pomodoro. Vi si trova ricostruito efficacemente il modo in cui – attraverso il lavoro di Carmi – gli altiforni e i treni continui, il lamierino e gli altri prodotti semilavorati, gli operai e la vita dell’intera comunità aziendale, fino ai dati più astratti sull’andamento economico dell’azienda furono resi parte di un’immagine fortemente estetizzata, che aveva alle spalle una visione utopica del rapporto tra le arti e l’industria. L’artista genovese era presente in sala ed è intervenuto al termine della proiezione.
Gli altri interventi della giornata si sono soffermati su aziende altrettanto importanti nella fase del dopoguerra. Alberto Bassi ha passato in rassegna nella sua documentata relazione i successi ottenuti dalla Breda nelle diverse discipline del progetto: dall’architettura al disegno industriale, fino alla progettazione grafica dei materiali promozionali. Biagio Longo ha parlato della comunicazione all’Aem di Milano, mentre Daniele Pozzi ha affrontato il caso dell’Eni, esaminando in tutta la sua ricchezza di articolazioni la strategia di comunicazione istituzionale adottata durante il periodo in cui l’azienda fu guidata da Enrico Mattei. Il rapporto serrato con la cultura statunitense, la creazione di un servizio studi popolato di giovani intellettuali, il linguaggio moderno della comunicazione affidata alla grafica, al cinema industriale e all’architettura, sono tutti aspetti che fanno dell’Eni un esempio di grandissimo interesse nel quadro delineato finora, al di là degli aspetti specifici legati alla figura di Mattei.
Molte vicende industriali citate nella giornata dell’Isec erano, d’altra parte, strettamente legate al nome di un dirigente o di un uomo di impresa capace di fare da ponte con il mondo della produzione culturale. Paolo Rossi accennava a tal proposito alla possibilità di domandarsi se figure come quella di Giuseppe Luraghi (e con lui Adriano Olivetti, Giuseppe Martinoli o Gianlupo Osti) siano da considerare manager prestati alla cultura o intellettuali dotati di grandi capacità manageriali.
Tuttavia, non fu soltanto la scomparsa di queste figure eccezionali a determinare, sul finire degli anni sessanta, il declino di un modello di costruzione dell’immagine aziendale che aveva puntato molto sulla cultura. Come è apparso evidente nella relazione di Paolo Bricco, l’eredità lasciata da Adriano Olivetti nella sua azienda – ad esempio – ha resistito a lungo, fin quando è stato possibile trovare forme di continuità con la sua idea particolare di impresa, almeno nel campo del design e della politica culturale.
A giudizio di Nicola Crepax, intervenuto sulla figura di Luraghi, quel mondo in cui era possibile vagheggiare una nuova integrazione tenico-umanistica in nome dell’industria, è finito insieme all’impresa fordista e alle sue ambizioni di intervento nella vita dei lavoratori e nella società. Sul piano più specifico delle strategie di comunicazione giocarono sicuramente un ruolo fortissimo l’emergere di modelli alternativi legati al marketing e la crescente impopolarità dell’industria in quello stesso ambiente intellettuale che negli anni cinquanta se ne era spesso innamorato.
Riconsiderando i diversi contributi della giornata, si avverte dunque la necessità di conoscere meglio quella stagione irripetibile, estendendo magari l’indagine a casi meno noti. Occorre evitare però ogni tentazione di rievocazione nostalgica, che non tenga conto anche degli aspetti contraddittori, paternalistici e velleitari, che pure esistevano nelle diverse esperienze di quegli anni. Una prospettiva importante sarebbe, del resto, quella di provare a rintracciare filoni di continuità e comprendere quale sia l’eredità lasciata da quella fase pionieristica, piena di facili entusiasmi e felici intuizioni, nei rapporti tra imprese e cultura in Italia.

Torna indietro
 
in primo piano
home editoriale primo piano scheda ica/sbl recensioni link archivio autori credits


Copyright 2009 © Fondazione Ansaldo, Centro per la cultura d'impresa