|
Questa è la
stagione in cui si fa impresa e si compete
grazie alla partnership interaziendale.
L'esperienza Erg ad esempio di come la via
maestra alla cresicta qualitativa e allo
sviluppo competitivo sia rappresentata dalla
capacità di mettere a fattore comune
competenze e risorse di conoscenza.
|
Numerosi sono i criteri secondo i quali l’organizzazione
d’impresa è stata definita:
|
- |
|
una struttura che mette
in relazione strumenti e persone |
|
- |
|
uno scopo che unifica
risorse materiali e immateriali |
|
- |
|
un’identità
collettiva che produce senso e significati,
il sensemaking della cosiddetta «svolta
linguistica delle organizzazioni». |
Credo di posizionarmi nella logica propugnata dalla
missione editoriale di
«Culture e impresa»
affermando che – in questa fase storica, dominata
dal paradigma del network e dalle tecnologie dell’informazione
– l’impresa può sempre di più
essere rappresentata come uno
spazio aperto;
uno spazio privo di perimetri fisici e confini materiali,
ma determinato da architetture di interdipendenze
strategiche. Nel passaggio dalla
fabbrica
fordista, integrata verticalmente quanto
serrata nei confini murari che ne circondano i capannoni,
all’
impresa-rete postfordista.
A tale riguardo,
Robert
Reich, Secretary of Labor nella prima amministrazione
Clinton, ha ricostruito emblematicamente la catena
produttiva attraverso la quale Gm, industria fordista
per eccellenza, realizza la sua Pontiac Le Mans: un
reticolo industriale globale che connette ben nove
paesi di tre diversi continenti – motori giapponesi,
progettazione tedesca, marketing inglese, componentistica
di Singapore e Taiwan, elaborazione dati delle Barbados
e così via.
Insomma, i muri delle imprese sono crollati ben prima
di quello «fatidico» di Berlino! Perché
questa è la stagione in cui si fa impresa e
si compete grazie alla
partnership interaziendale.
Coopetition, la chiamano
gli studiosi di lingua anglosassone.
«Questa è la stagione
in cui si fa impresa e si compete grazie alla
partnership interaziendale» |
«In sostanza, le evoluzioni tecnologiche e dei
mercati impongono alle imprese lo sviluppo di reti
relazionali per dominare la varietà
e la variabilità delle opzioni tecnologiche
e delle tendenze al consumo», ha giustamente
osservato
Andrea
Lanza,
doctoral fellow presso l’Università
della Pennsylvania.
Potrei citare mille esempi a conferma. Preferisco
spiegarmi attraverso quello che conosco meglio, Erg.
Infatti la nostra azienda:
|
- |
|
si è rafforzata
nel settore petrolifero alleandosi con Bp
già a partire dagli anni sessanta |
|
- |
|
da poco è entrata
nella produzione di energia elettrica facendo
coalizione con l’americana Edison mission
energy |
|
- |
|
sta iniziando a operare
nel business eolico grazie al felice incontro
con partner spagnoli. |
Sono i risultati a spiegarci chiaramente come la via
maestra alla
crescita qualitativa
e allo
sviluppo competitivo sia rappresentata
dalla capacità di mettere a fattore comune
competenze e
risorse di conoscenza,
creando adeguate
masse critiche.
Un messaggio che deve essere ancora inteso appieno
dal sistema produttivo italiano. Se accettiamo l’invito
sempre più opportuno ad andare oltre gli stereotipi
del «piccolo è bello» degli scorsi
decenni. Del resto, messaggio – implicito ma
chiarissimo – contenuto proprio nell’indirizzo
di programma della nuova presidenza di Confindustria.
Dichiara Luca Cordero di Montezemolo: «il sistema
delle imprese deve esprimere una
cultura della
collaborazione che non elimini la concorrenza
ma aiuti a costruire valori comuni, spendibili anche
sul mercato».
La logica della
coopetition porta con sé
un problema molto importante – e centrale per
la riflessione di questa rivista –:
«I veri punti di forza
sono rappresentati dai saperi che l’organizzazione
produttiva ha incorporato nel tempo» |
quello della desiderabilità della propria impresa
da parte di potenziali alleati. In altre parole, quali
sono gli
assets che la rendono, appunto,
desiderabile?
Affermo senza tema di smentita che i veri
punti
di forza sono rappresentati dai
saperi
che l’organizzazione produttiva ha incorporato
nel tempo. Vogliamo chiamarli
patrimoni cognitivi,
vogliamo definirli
cultura? Sia come
sia, un’impresa è appetibile e vincente
nella misura in cui la sua qualità umana è
alta.
Ce lo ha spiegato molto bene
Luciano
Gallino nel suo più recente saggio: «un’organizzazione
produttiva è un
sistema cognitivo distribuito,
tanto più complesso allorché si abbia
a che fare con l’elaborazione e l’applicazione
industriale di tecnologie avanzate. Le innumerevoli
molecole di conoscenza esplicita e implicita che lo
formano stanno sia nella memoria delle persone, pur
nei casi in cui non ne sono consapevoli, sia negli
archivi, dossier, classificatori,
files di
ogni reparto, divisione, officina o ufficio –
non solo in quelli della direzione generale o del
CdA. Non meno essenziali sono le particolari relazioni
che si sono stabilite tra le tante molecole cognitive:
sono infatti esse che fanno la differenza tra una
congerie caotica di elementi e un sistema funzionante»
(
La scomparsa dell’Italia industriale,
Torino, Einaudi, 2003, p. 75).
Io non credo – come vorrebbero certi «futurologi
d’impresa», alla
Peter
Drucker – che siamo giunti alle soglie di
una società post-capitalistica. Dice il celebre
sociologo viennese della Business School di New York:
«l’organizzazione moderna non può
essere un’organizzazione di
capi e
di
subordinati. Deve essere organizzata come
una squadra di
soci». Il capitalismo
d’impresa resta tuttora l’insostituibile
modalità per creare ricchezza attraverso una
salda guida delle organizzazioni produttive.
La leadership resta sempre fondamentale condizione
di successo. Però bisogna intendersi molto
bene al riguardo. Oggi il comando è sempre
di più finalizzato a introiettare cultura del
cambiamento strategico nelle pratiche di mercato.
Dunque, promuovere e diffondere orientamento all’innovazione
nell’intera struttura.
Ciò significa che la
qualità
della leadership si misura proprio nella
dimensione del
capitale culturale
della propria organizzazione.