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Competere collaborando
di Edoardo Garrone

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Questa è la stagione in cui si fa impresa e si compete grazie alla partnership interaziendale. L'esperienza Erg ad esempio di come la via maestra alla cresicta qualitativa e allo sviluppo competitivo sia rappresentata dalla capacità di mettere a fattore comune competenze e risorse di conoscenza.

Numerosi sono i criteri secondo i quali l’organizzazione d’impresa è stata definita:
-
una struttura che mette in relazione strumenti e persone
 
-
 
uno scopo che unifica risorse materiali e immateriali
 
-
 
un’identità collettiva che produce senso e significati, il sensemaking della cosiddetta «svolta linguistica delle organizzazioni».

Credo di posizionarmi nella logica propugnata dalla missione editoriale di «Culture e impresa» affermando che – in questa fase storica, dominata dal paradigma del network e dalle tecnologie dell’informazione – l’impresa può sempre di più essere rappresentata come uno spazio aperto; uno spazio privo di perimetri fisici e confini materiali, ma determinato da architetture di interdipendenze strategiche. Nel passaggio dalla fabbrica fordista, integrata verticalmente quanto serrata nei confini murari che ne circondano i capannoni, all’impresa-rete postfordista.

A tale riguardo, Robert Reich, Secretary of Labor nella prima amministrazione Clinton, ha ricostruito emblematicamente la catena produttiva attraverso la quale Gm, industria fordista per eccellenza, realizza la sua Pontiac Le Mans: un reticolo industriale globale che connette ben nove paesi di tre diversi continenti – motori giapponesi, progettazione tedesca, marketing inglese, componentistica di Singapore e Taiwan, elaborazione dati delle Barbados e così via.
Insomma, i muri delle imprese sono crollati ben prima di quello «fatidico» di Berlino! Perché questa è la stagione in cui si fa impresa e si compete grazie alla partnership interaziendale. Coopetition, la chiamano gli studiosi di lingua anglosassone.
«Questa è la stagione in cui si fa impresa e si compete grazie alla partnership interaziendale»
«In sostanza, le evoluzioni tecnologiche e dei mercati impongono alle imprese lo sviluppo di reti relazionali per dominare la varietà e la variabilità delle opzioni tecnologiche e delle tendenze al consumo», ha giustamente osservato Andrea Lanza, doctoral fellow presso l’Università della Pennsylvania.

Potrei citare mille esempi a conferma. Preferisco spiegarmi attraverso quello che conosco meglio, Erg.
Infatti la nostra azienda:
-
si è rafforzata nel settore petrolifero alleandosi con Bp già a partire dagli anni sessanta
 
-
 
da poco è entrata nella produzione di energia elettrica facendo coalizione con l’americana Edison mission energy
 
-
 
sta iniziando a operare nel business eolico grazie al felice incontro con partner spagnoli.
Sono i risultati a spiegarci chiaramente come la via maestra alla crescita qualitativa e allo sviluppo competitivo sia rappresentata dalla capacità di mettere a fattore comune competenze e risorse di conoscenza, creando adeguate masse critiche.

Un messaggio che deve essere ancora inteso appieno dal sistema produttivo italiano. Se accettiamo l’invito sempre più opportuno ad andare oltre gli stereotipi del «piccolo è bello» degli scorsi decenni. Del resto, messaggio – implicito ma chiarissimo – contenuto proprio nell’indirizzo di programma della nuova presidenza di Confindustria.
Dichiara Luca Cordero di Montezemolo: «il sistema delle imprese deve esprimere una cultura della collaborazione che non elimini la concorrenza ma aiuti a costruire valori comuni, spendibili anche sul mercato».

La logica della coopetition porta con sé un problema molto importante – e centrale per la riflessione di questa rivista –:
«I veri punti di forza sono rappresentati dai saperi che l’organizzazione produttiva ha incorporato nel tempo»
quello della desiderabilità della propria impresa da parte di potenziali alleati. In altre parole, quali sono gli assets che la rendono, appunto, desiderabile?
Affermo senza tema di smentita che i veri punti di forza sono rappresentati dai saperi che l’organizzazione produttiva ha incorporato nel tempo. Vogliamo chiamarli patrimoni cognitivi, vogliamo definirli cultura? Sia come sia, un’impresa è appetibile e vincente nella misura in cui la sua qualità umana è alta.

Ce lo ha spiegato molto bene Luciano Gallino nel suo più recente saggio: «un’organizzazione produttiva è un sistema cognitivo distribuito, tanto più complesso allorché si abbia a che fare con l’elaborazione e l’applicazione industriale di tecnologie avanzate. Le innumerevoli molecole di conoscenza esplicita e implicita che lo formano stanno sia nella memoria delle persone, pur nei casi in cui non ne sono consapevoli, sia negli archivi, dossier, classificatori, files di ogni reparto, divisione, officina o ufficio – non solo in quelli della direzione generale o del CdA. Non meno essenziali sono le particolari relazioni che si sono stabilite tra le tante molecole cognitive: sono infatti esse che fanno la differenza tra una congerie caotica di elementi e un sistema funzionante» (La scomparsa dell’Italia industriale, Torino, Einaudi, 2003, p. 75).

Io non credo – come vorrebbero certi «futurologi d’impresa», alla Peter Drucker – che siamo giunti alle soglie di una società post-capitalistica. Dice il celebre sociologo viennese della Business School di New York: «l’organizzazione moderna non può essere un’organizzazione di capi e di subordinati. Deve essere organizzata come una squadra di soci». Il capitalismo d’impresa resta tuttora l’insostituibile modalità per creare ricchezza attraverso una salda guida delle organizzazioni produttive.

La leadership resta sempre fondamentale condizione di successo. Però bisogna intendersi molto bene al riguardo. Oggi il comando è sempre di più finalizzato a introiettare cultura del cambiamento strategico nelle pratiche di mercato. Dunque, promuovere e diffondere orientamento all’innovazione nell’intera struttura.
Ciò significa che la qualità della leadership si misura proprio nella dimensione del capitale culturale della propria organizzazione.

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