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Divenire consapevoli
della propria cultura d’impresa e
farne «valore» si coniugano
con le dimensioni globali del mercato. Di
questo ne deve tener conto anche la piccola
e media impresa.
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La cultura d’impresa è un tema affascinante,
vastissimo. E poliedrico. Tenterò di coglierne
qualche significato attraverso il punto di vista,
che più mi è familiare e noto, legato
alla realtà della piccola e media industria.
Certo, questo non restringe molto le modalità
di analisi, perché non di cultura, ma di
culture
d’impresa è più ragionevole
parlare quando ci riferiamo alle imprese piccole e
medie.
Perché se è vero che non c’è
un modello culturale di riferimento cui l’industria
si possa ispirare sic et simpliciter, è altrettanto
vero che la piccola e media industria un patrimonio
comune di cultura d’impresa non ce l’ha,
deve crearselo.
«La piccola e media industria
un patrimonio comune di cultura d’impresa
non ce l’ha, deve crearselo» |
Da dove? Dal proprio
vissuto,
dal lavoro quotidiano della produzione, dell’approccio
al mercato, delle modalità di distribuzione
e di vendita, con tutta la conoscenza che la tecnologia,
i processi avanzati e l’
innovazione
di prodotto comportano e tutto il patrimonio personale
di quanti in quella impresa lavorano, tutto l’apporto
umano e professionale che vi trasferiscono.
Cultura d’impresa come patrimonio di relazioni.
Infatti penso che si possa parlare di due aspetti
che concorrono a creare la cultura d’impresa
– possiamo anche dire la coscienza di sé
– nella piccola e media industria:
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da un lato la cultura
familistica, che naturalmente è
peculiare dell’universo Pmi |
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dall’altro –
e questo è meno scontato, e per certi
versi credo più affascinante –
una cultura concorrente «di
gruppo», formata cioè
da tutti coloro che lavorano in una azienda
piccola o media perché ognuno vi svolge
un ruolo irrinunciabile dove ha modo di esprimere
a tutto tondo il proprio modo di essere e
di concepire l’impresa. |
Credo che la cifra della cultura d’impresa delle
Pmi sia in questo incontro, che crea una miniera di
saperi spesso sottovalutati, talvolta perfino inconsapevolmente
gestiti, ma vivi e vitali per l’impresa e per
i suoi naturali stakeholders, in primis la comunità
e il territorio su cui opera.
Ogni impresa si crea e arricchisce a partire dalle
conoscenze e dalla sensibilità di un singolo,
che poi si implementano man mano con l’apporto
che portano tutti coloro che vi lavorano, ma la
consapevolezza di questo processo è
altra cosa, e solo una minoranza delle imprese riesce
a viverla pienamente.
Questo per la difficoltà oggettiva di rendere
razionale un processo quasi spontaneo. Per la difficoltà
di condividerlo e comunicarlo all’esterno
e farne un patrimonio collettivo,
soprattutto nella prima generazione imprenditoriale.
E’ dalla seconda, più ancora dalla
terza generazione, che l’impresa riesce a
«staccarsi» fisicamente
dal suo fondatore, oggettivandosi, e questo è
un passaggio fondamentale perché possa essere
concepita da chi la guida e da chi vi opera come
patrimonio comune di un gruppo prima, poi di una
intera comunità. Patrimonio che non si impoverisce
se viene condiviso, ma che anzi crea valori e ricchezza
alla collettività e come tale viene da essa
percepito.
È un’operazione di comunicazione,
senz’altro, ma anche di crescita culturale,
e non solo da parte dell’imprenditore. Anche
la collettività si trova a dover riconsiderare
il ruolo dell’impresa nel suo contesto, dandole
dignità di soggetto culturale, oltre che
economico. E se una operazione del genere può
sembrare ovvia per grandi industrie che riescono
nel tempo addirittura a modificare la composizione
sociale di interi agglomerati urbani, lo è
molto, molto meno per industrie piccole che operano
con un numero di dipendenti anche molto limitato
rispetto la collettività del territorio in
cui insistono.
Questa oggettiva diversità di prospettive,
però, non può più – come
spesso in passato – essere usata a scusante
della classe imprenditoriale.
«La nuova realtà
dei mercati obbliga anche le piccole imprese
ad acquisire conoscenze sempre più
sofisticate» |
La piccola e media impresa è oggi chiamata
a una profonda
revisione e
razionalizzazione
della sua struttura per poter vivere e aumentare
la propria competitività in uno scenario
diventato globale - dove il mercato interno è
ormai perfettamente riconoscibile entro i confini
dell’Unione europea.
La nuova realtà dei mercati obbliga anche
le piccole imprese ad acquisire
conoscenze
(di informatica, produzione, marketing, tecnologiche,
ecc.) sempre più sofisticate, tanto più
quanto meno sono protette da norme e privilegi di
vario tipo.
Dunque la Pmi è obbligata a uno sforzo ulteriore
per acquisire piena consapevolezza della propria
cultura d’impresa e farne «valore»,
cioè occasione di sviluppo non solo economico
per tutta la comunità economica e sociale
di riferimento, possibilmente tentando una strada
propria.
Credo sia uno sforzo che vale la pena compiere.
Che in un momento di grande incertezza dell’industria
come è questo, possa servire guardare indietro,
ripensare al percorso di relazioni, saperi, innovazione
e sperimentazione che si è compiuto. Riguadagnandolo
per essere più forti, per guardare avanti
con maggiore fiducia.