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Innovazione, passato, futuro
di Piero Bassetti

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Il Punto
Produrre innovazione vuol dire cambiare il mondo circostante in modo imprevedibile. L’impresa che fa innovazione ha un potere e una responsabilità politica: è ammissibile che in una società democratica l’innovazione sia politicamente irresponsabile?
«Il potenziale di crescita economica di un Paese dipende direttamente dagli investimenti nel rinnovamento della conoscenza»: oggi una frase come questa non sorprende nessuno, tanto meno chi si trova a gestire il potere.
Dal crescente bisogno dello scienziato di inserirsi in strutture organizzative adeguate nasce, quindi, l'alleanza con l'impresa. Quest'ultima è stata infatti prontissima a scorgere nelle novità assolute di molte scoperte della scienza una nuova risorsa utile per il perseguimento di quell'apporto aggiuntivo al suo profitto che è l'innovazione.

Ha capito che per realizzare l’innovazione l'apporto della scienza, seppur fondamentale, non bastava e che occorreva aggiungere all'ipotesi scientifica, alla tecnologia, al capitale altri fattori quali creatività, disponibilità al rischio, capacità manageriali. Fattori che era in grado di procurarsi affiancando allo scienziato l'imprenditore, con il compito di realizzare ciò che è nuovo e che poteva apparire improbabile.

Solo che, essendo l’innovazione anche creatività – è stato detto: in questo modo rompe l’ovvietà! – è sempre un cambiamento in qualche modo
«Dal crescente bisogno dello scienziato di inserirsi in strutture organizzative adeguate nasce l'alleanza con l'impresa»
imprevedibile che per questo motivo – come argomentano Schumpeter e Nelson – determina un’aggiunta di rischio/opportunità e potere sociale. Proprio per questo noi parliamo di innovazione come realizzazione dell’improbabile. Come qualcosa che è sempre rischio e opportunità, che cambia il mondo che ci circonda ma lo cambia in direzioni intrinsecamente imprevedibili. Un’imprevedibilità che si può esprimere:
-
sul piano politico-sociale, nuove istituzioni, nuove modalità di relazioni, di produzione, di guerra, nuovi poteri
 
-
 
sul piano tecnico-economico, nuovi materiali, nuove energie, nuovi strumenti, nuove categorie di beni
 
-
 
sul piano estetico culturale, nuovi stili, mode, gusti, atteggiamenti.

La scienza ha incontrato il potere
e su questo non possono esserci dubbi. Catalizzatore di questo incontro è stata l’innovazione, struttura operativa l’impresa o l’istituzione pubblica ad hoc, coordinatore l’imprenditore, regolatrice la statualità.

Le conseguenze non sono reversibili. Partecipando a questo processo e assumendosi il ruolo di co-decisore del cambiamento, l'innovazione (scienza+capitale) ha incontrato la politica.
In questo modo l'impresa, che gestisce l'innovazione, è diventata co-attrice diretta di scelte che ci toccano tutti.
Scelte che non riguardano solo strumenti capaci di funzionare nelle mani del vecchio potere per i suoi obiettivi. Ma che riguardano l’innovazione e perciò sono scelte di fini.
Il ruolo dell'impresa non è più un ruolo politicamente subalterno. È paritario. E come tale deve essere responsabile.
Ecco che il tema della responsabilità politica si pone quindi anche per l'impresa:

-
essa non potrà più definirsi neutra
 
-
 
dovrà riconoscere la sua consapevolezza dei fini rispetto ai quali la sua offerta di sapere si è rivelata strumentale
 
-
 
dovrà ammettere di aver partecipato, nell’ambito del processo di innovazione, a finalità di cambiamento
 
-
 
dovrà ammettere di essersi integrata nell’organizzazione del potere moderno, che non è più soltanto monopolio della violenza legittima ma piuttosto detenzione e guida dei processi innovativi.
In sostanza deve ammettere di aver fatto e di fare politica.
Ma si può fare politica senza memoria? Io credo proprio di no. Senonché i metodi decisionali delle istituzioni democratiche attuali sembrano poco adatti a favorire questo raccordo. Basati, come sono, sulla raccolta del consenso maggioritario - largamente influenzato dai media con la loro ossessione per l’attualità -
«Ma allora dobbiamo proprio rassegnarci? Possiamo ammettere che, in una società che si definisce democratica, l'innovazione sia politicamente irresponsabile?»
essi faticano a raccordarsi non solo alla memoria ma anche all’innovazione.
Stentano cioè a valutare ex ante situazioni come le innovazioni che, per definizione, postulano cambiamenti affidati a saperi e poteri sociali improbabili, per dirla con Bruno Latour.

Ma allora dobbiamo proprio rassegnarci? Possiamo ammettere che, in una società che si definisce democratica, l'innovazione sia politicamente irresponsabile? Che essa possa essere distribuita confusamente tra l'imprenditore – cui la dottrina attribuisce tutt'al più una responsabilità implicita, quella appunto legata alla verifica del mercato – e il mercato, nella sua indeterminatezza e acefalia? D'altro canto, le nuove regole sempre seguono, mai precedono gli eventi improbabili. E in mancanza di regole, chi può, deve inventarsele.

La Fondazione Giannino Bassetti per l'innovazione responsabile sta lavorando, partendo da un caso concreto, sulle procedure democratiche da proporre agli organi politici per conciliare storia, innovazione, rischio, incertezza, imprevedibilità, con la fondamentale idea democratica di decidere a maggioranza.
È questo infatti ciò che sembra stare a cuore a un organismo politico come l'Unione Europea nella quale sola è lecito porre oggi la speranza di nuovi modi di fare politica.
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