Intervista
a Giancarlo Gonizzi
(curatore Archivio storico Barilla)
di Maria
Chiara Corazza
realizzata il 26-02-2001 (agg. 15-09-2004)
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Ricostruire
un archivio
L'archivio
oggi
L'organizzazione
dell'archivio
L'archivio
raccoglie, conserva, comunica
Le istituzioni culturali dell'impresa
M.C.C.: Cosa pensa degli archivi
aziendali, o meglio degli archivi storici d’impresa?
G.G.: Esprimo delle opinioni personali
e non dell’azienda. Questo è un dato
importante e oggettivo. Barilla è un’azienda
fortunata, perché si trova a operare in un
settore a largo consumo, per cui l’archivio
racchiude in sé potenzialità che altre
aziende non hanno. Penso a un’azienda metalmeccanica
di subfornitura, il cui archivio ha potenzialità
molto inferiori rispetto a quello di un’azienda
che produce un bene di largo consumo e che è
in più leader di mercato. La
tipologia aziendale credo sia discriminante
rispetto al ruolo potenziale che
può avere l’archivio storico. Detto
questo, c’è un altro aspetto da considerare:
in Italia la cultura d’impresa e la storia
d’impresa sono, non dico scarse, ma pressoché
inesistenti. Credo che non si tratti di fare cultura
economica, pur rispettando chi l’ha fatta
nel tempo – e ci sono stati esponenti di grande
rilievo – ma cultura del lavoro.
Il lavoro è lo strumento con cui l’uomo
trasforma la realtà in cui
si trova, nel bene e nel male. Perdere memoria
di questo significa perdere memoria dell’uomo,
tout court, brutalmente. Nel momento in cui noi
facciamo un buco e scaviamo, da un punto di vista
archeologico, e facciamo emergere case, muri, non
dobbiamo dimenticare che quelle case e quei muri
sono frutto del lavoro di qualcuno che ha vissuto
facendo quell’attività, attraverso
quella attività, fosse un muratore, un architetto,
un ingegnere o un imprenditore edile. Quindi valorizzare
la cultura del lavoro – tenendo presente
che ci sono valori che travalicano il lavoro, ma
che non è questo il momento di parlarne –
significa valorizzare anche l’uomo.
Non si può prescindere dall’uomo, perché
il lavoro in sé non esiste: se togliamo gli
uomini, il lavoro non esiste più. Quindi
il lavoro non vale nulla se non ci sono gli uomini.
Esiste la cultura ideologica, che ha imperversato
per anni in Italia – di qualunque tinta e
colore ideologico fosse, non mi interessa –
ma non è esistita una cultura del lavoro
in grado di promuovere e valorizzare quello che
è l’attività dell’uomo.
Credo che questo sia il compito importantissimo
che possono svolgere per la comunità quelle
che io considero le istituzioni culturali
delle imprese – musei, raccolte,
collezioni, esposizioni, archivi, etc. – per
le quali forse dovremmo inventare un nome nuovo.
Da questo punto di vista sono convinto che anche
la collettività dovrebbe
in qualche modo rendersi conto del valore
di queste strutture, che travalica la storia stessa
delle singole aziende, per dare la possibilità
alle aziende che investono in questi strumenti di
ricavarne anche un ritorno di tipo economico. Questo
è però un altro discorso. Gli sgravi
fiscali sarà qualcun altro a chiederli. Tuttavia
avrebbero un senso, non in quanto la singola azienda
fa questo, ma in quanto rientrano in un panora ma
di più ampie dimensioni. C’è
poi un altro aspetto che mi sembra importante e
di cui abbiamo recentemente parlato con il prof.
Paletta: a tutt’oggi, le categorie,
archivi e musei sono stati definiti
dall’intervento pubblico – ed è
anche giusto che così sia. Lo Stato,
per esprimere la propria attività, produce
carta, la carta viene organizzata in un archivio
e le regole dell’archivio sono dettate dallo
Stato. Tutto questo va molto bene. L’uomo
per produrre dei beni produce: strutture, procedure,
macchine, carte e ovviamente gli
stessi beni. Tutta questa filiera entra in quello
che noi chiamiamo archivio/museo d’impresa.
Non sto a sottilizzare, è solo un problema
di configurazione degli ambienti: non si tratta
né di un archivio né un museo. Per
gioco l’abbiamo chiamato «archimuseo»
o un termine simile. E’ una realtà
che non si identifica pienamente
con le altre, ma ne differisce. Ho partecipato,
ospite grato, al Convegno nazionale degli archivisti
italiani, che hanno chiesto di raccontare cosa è
un archivio di impresa, quali sono le modalità
di lavoro all’interno degli archivi d’impresa.
E gli archivisti stessi si stanno accorgendo che
da un lato esiste un’associazione che è
naturalmente nata per difendere quelli che sono
gli obiettivi della categoria, composta al 99% da
statali e quindi focalizzata su rivendicazioni sindacali
nei confronti dello stato; nel frattempo però
stanno nascendo delle figure di liberi professionisti
che agiscono all’interno delle aziende,
che non si curano minimamente di quelle problematiche
di ordine sindacale, ma che debbono invece essere
attenti alle problematiche di tipo culturale –
come ordiniamo questi materiali, come li conserviamo
– e che non hanno strumenti culturali
adeguati non perché siano essi stessi impreparati,
ma perché non esiste una letteratura,
una storia di casi e eventi che consenta di avere
dei riferimenti. Nel momento in cui ci troviamo
a gestire e conservare le pellicole cinematografiche,
i nastri magnetici, fino al dvd di ultima generazione.
Dobbiamo affrontare delle realtà, delle situazioni
che sono nuove, differenti e che raramente si trovano,
o si trovano solo forse nella cineteca specialistica,
perché assieme abbiamo tutti i nastri audio,
i dischi, le matrici originali in lacca e tutti
i sistemi di registrazione possibili e immaginabili
nel tempo. Abbiamo poi gli impianti di stampa, le
pellicole e i fogli di giornale: tipologie
numerosissime, differenti per materiali,
che convivono all’interno della stessa struttura
e che presentano problematiche di conservazione
completamente differenti. Quindi, se prima c’era
un’idea filosofica – l’archivio
di impresa non è come un archivio pubblico
o un archivio di stato perché rappresenta
ciò che rimane di un processo di lavoro –
dall’altro lato abbiamo una potenzialità
enorme di approfondimenti tecnico-scientifici
per la conservazione, potenzialità che altre
istituzioni pubbliche non hanno o hanno in forma
parcellizzata. Quindi, vedo le persone che sono
chiamate a lavorare o a dirigere degli archivi d’impresa
come persone con delle potenzialità notevoli
in mano, che hanno un enorme ruolo di coordinamento
e che difficilmente possono riassumere in sé
tutti i ruoli necessari.
Dovrebbero essere pressoché onniscienti,
il che non è consentito, ovviamente. Vedo
anche alcune potenzialità: qualora queste
istituzioni culturali delle aziende, dopo aver lavorato
per conto proprio, riescano a organizzare qualcosa
tra di loro e a far percepire che non è un
gioco dell’industriale, ma è un grosso
sforzo dell’impresa tout court,
in senso più ampio, vissuto come tessuto
all’interno di un paese. Se oltre ad essere
vetrina del signor Bianchi, del signor Verdi, del
signor Rossi, riusciamo a fare qualche cosa che
diventi vetrina delle imprese,
allora a questo punto un grosso obiettivo, che giustifichi
l’esistenza di queste strutture, verrà
dato. Altrimenti scopriamo che nei momenti di ristrettezza
queste cose vengono prese, messe in un angolo e
dimenticate, perché non sono, ovviamente,
obiettivo primario delle aziende. Invece, pur non
essendo obiettivo primario concreto dell’azienda,
che ha come mission quella di produrre
il bene, il servizio, il prodotto che ha in mano,
sono strumenti formidabili per motivare
le persone che lavorano all’interno dell’azienda
e per diffondere un approccio positivo
a quello che è il lavoro.
Può essere curioso, ma se negli anni settanta
esisteva una radicata cultura antiaziendale, oggi
assistiamo per contro a un grosso interesse per
quelle che sono invece le modalità del lavoro,
in modo abbastanza diffuso: dal mondo della scuola
alla società. Sono atteggiamenti
che ritengo più corretti, perché non
ha senso demonizzare qualche cosa che fa l’uomo
e che fa parte della sua vita e che serve ovviamente
per sostenere e sostentare tutti. Chiaramente ci
sono modi corretti e modi scorretti in tutte le
cose.
Immagini
per gentile concessione dell'Archivio storico Barilla
© Barilla G. & R. F.lli Spa