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Sintesi dell’intervento al Convegno “L’archivio operativo” Torviscosa, 1 febbraio 2007.
di Massimo Negri

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Nota introduttiva al convegno

1. L’archeologia industriale in Italia
2. Il patrimonio storico dell’industria
3. Il rapporto tra archivio e museo
4. Il futuro imminente


1. L’archeologia industriale in Italia

La breve storia dell’archeologia industriale italiana registra nell’anno appena iniziato due piccoli anniversari. Sono trascorsi, infatti, 30 anni da quello che può essere considerato l’avvenimento fondativo dell’archeologia industriale italiana e cioè il Convegno Internazionale di Milano tenutosi alla Rotonda della Besana nel 1977 nell’ambito della mostra “San Leucio: archeologia, storia, progetto” organizzato dalla allora neonata Società Italiana per l’Archeologia Industriale presieduta da Eugenio Battisti. E sono trascorsi 10 anni da quando è stata fondata, nel 1997,  l'Associazione Italiana per il Patrimonio Archeologico Industriale presieduta da Giovanni Fontana che di quella prima pionieristica SIAI è sicuramente l’erede diretta e “lo stadio evolutivo”, come ben indica il nome che sposta dalla attività (l’archeologia) ai beni (il patrimonio) il focus della sua ragione sociale.
In Italia, la cooptazione dello stesso termine di archeologia industriale nel linguaggio di massa, di cui possiamo assumere come indicatore definitivo la comparsa di questa espressione sulle pagine di un numero di “Paperino” del 2000 all’interno di un dialogo tra i Bassotti, è giunta a compimento di un ciclo che ha visto la proliferazione di censimenti dei monumenti industriali nelle diverse regioni, la costituzione di  un corpo notevole di lavori fotografici d’autore, la realizzazione di una miriade di servizi fotografici e televisivi che hanno assunto i luoghi della archeologia industriale come set ideali per la loro forza espressiva posta di volta in volta al servizio di presentazioni di moda, di automobili, bevande ecc. l’irruzione del paesaggio archeologico-industriale nella estetica cinematografica dove le derelict land industriali sono state volentieri adottate come scenario di stati d’animo più o meno travagliati (da “Maledetti vi amerò” fino a “Nirvana” di Salvatores, solo per citare due casi cronologicamente e tematicamente distanti tra loro). Per non dire degli esiti dell’Arte Povera (Kounellis in primis) e anche di tantissima “pittura-pittura” dalla fine degli anni ’80 che ha ripreso in chiave iperrealista (Arduino Cantafora) oppure neodechirichiana (Paola Gandolfi) o ancora romantico-simbolista (alcune opere di Raffaele Bueno) la rappresentazione di architetture industriali storiche, reali o immaginate. Tutte manifestazioni artistiche lontanissime e radicalmente diverse per senso e intenzioni dalle interpretazioni del paesaggio industriale urbano di marca futurista o, successivamente, neorealista. All’epica industriale e modernista di questi ultimi milieu culturali, si è andata sostituendo la rielaborazione dei materiali fisici o visivi dell’industria trascorsa, dismessa, oppure – se vogliamo usare un termine più crudo, ma veritiero- dell’industria morta. Possiamo cioè affermare che la percezione del sito archeologico-industriale in termini di monumento si è diffusa nella sensibilità collettiva di fine ‘900 innanzi tutto nella sfera estetica, più ancora che nella coscienza dei valori tecnologici oppure storico-sociali di cui esso è portatore. Questo in Italia, ma anche in Inghilterra dove l’archeologia industriale è nata soprattutto per merito di figure dalle molteplici sfaccettature come Kenneth Hudson che ha scritto a questo proposito:

“ (l'archeologia industriale)…..è stata figlia dell’Europa esausta del secondo dopoguerra. Un continente che doveva guarire dalle distruzioni e dal caos determinati da quanto era accaduto tra il 1939 e il 1944, che aveva perso ogni illusione nei confronti di generali, eroi, questioni politiche e imperi, e che cercava di riscoprire una precedente età dell’oro, quando proprio la Gran Bretagna stava gettando le fondamenta di un mondo nuovo.
D’improvviso i vecchi edifici industriali divennero belli…”.


2. Il patrimonio storico dell’industria

Tra gli sviluppi dell’archeologia industriale italiana va segnalato lo sforzo di “smarcarsi”da una dimensione storico- artistica (per quanto la archeologia industriale nel sistema accademico italiano afferisca curiosamente al settore dell’arte contemporanea) o storico-architettonica in senso stretto, per  spostarsi verso una definizione omnicomprensiva di “patrimonio storico dell’industria”. Semplificando: rientrano nel concetto di “monumento industriale” anche categorie di beni come il documento cartaceo o il bene immateriale, il saper fare e – new entry di un settore per sua origine piuttosto “ferrigno” – il patrimonio digitale.
Se la fabbrica è il monumento architettonico dell’industria, la tipologia edilizia “inventata” dal capitalismo industriale, l’archivio aziendale ne è il corrispettivo cartaceo o meglio (una volta ridimensionato il ruolo della carta  a favore di altri supporti come la pellicola o il floppy – già archeologico – e il CD) il corrispettivo “informativo” , in un certo senso il monumento archeologico di quel segmento  della knowledge society che ha a che fare con la produzione e la tecnologia.
Se l’archeologia industriale e la archivistica di impresa sono partite da campi di azione differenti  (outdoor-indoor), è ben vero che si incontrano oggi in una visione più articolata di quello che potremmo chiamare un campo di indagine ed un metodo di conoscenza, più che una disciplina strutturata secondo uno statuto univocamente definito. Sarà banale, ma corrisponde alla realtà il fatto che un metodo profondamente e irrevocabilmente multidisciplinare è andato affermandosi nello studio di questi ”patrimoni”, se non sempre per scelta, almeno per necessità.


3. Il rapporto tra archivio e museo

Ma queste possono essere intese ancora come premesse. Oggi siamo qui a parlare prevalentemente di technicalities (modalità di conservazione, catalogazione, ecc.) e di valorizzazione: due piani concettualmente e metodologicamente diversi, ma inscindibili se vogliamo porre in atto programmi di azione volti al futuro (e dunque intrecciati con le trasformazioni in atto e con quelle più o meno prevedibili) e non solo alla pura conservazione della memoria. Veniamo così al tema del rapporto tra archivio e museo, o meglio del rapporto tra spazio e tecniche comunicative del museo e spazio e tecniche comunicative dell’archivio. Di carta nei musei ve ne è sempre stata, di oggetti nell’archivio un po’meno (un po’ di più nell’archivio aziendale, in genere), dunque i mondi sono diversi. Di scaffali nei musei ve ne sono sempre stati fin dalle origini del museo moderno (si veda il legame tra il British Museum e British Library), di vetrine o di diorami negli archivi un po’ meno, dunque le modalità di uso degli spazi sono differenti.
Ma il museo di oggi, modello ancora in piena evoluzione (basterà pensare che oltre il 50% dei musei europei oggi visitabili non esisteva prima delle Seconda Guerra Mondiale),  nella sua incessante espansione verso quella che comincia ad essere definita “total museology”, comincia a coinvolgere anche biblioteche ed archivi e non semplicemente nella strutturazione all’interno del museo di spazi per l’accesso da parte del pubblico “alle carte”, ma nella concezione di spazi dove carte, libri, oggetti dialogano nella definizione di nuovi modelli museali. La Chester Beatty Library di Dublino e l’esposizione permanente “L’eredità dei Paesi Bassi” realizzata dalla Biblioteca Reale Olandese e dall’Archivio Nazionale a L’Aja, sono due esempi di questa contaminazione  riassumibile nell’idea dell’utilizzo del “linguaggio museale” per comunicare patrimoni librario-archivistici. Fenomeno che del resto abbiamo visto per secoli in biblioteche di conservazione, in musei della cultura religiosa, ecc. ma sempre con un linguaggio espositivo e interpretativo dal vocabolario molto ristretto (la vetrina, il tavolo, lo scaffale) e che oggi invece sembra quasi “esplodere” in un approccio globale alle potenzialità espressive del documento cartaceo utilizzato come un oggetto secondo tecniche interpretative sempre più ricche e sofisticate. Da questo punto di vista l’archivio aziendale ( spesso nucleo originario o mancato di un vero e proprio museo dell’impresa) si presenta come campo ideale di sperimentazione per il suo legame diretto con il luogo dove le storie che racconta hanno avuto, sovente, svolgimento, per una sua congenita ecletticità, per il suo essere spesso archivio di carte e archivio di oggetti (anche se non collezione in senso proprio). Di questo parleremo brevemente soffermandoci sul contributo che i musei di impresa stanno dando al rinnovamento delle scena museale europea


4. Il futuro imminente

Infine, un’occhiata al futuro imminente. Come dal repertorio dell’archeologia industriale è quasi del tutto scomparso lo scenario, fino a ieri classico, della fabbrica in abbandono, in stato di “semirovina” sostituito dalla fabbrica “cancellata” o radicalmente riutilizzata; l’oggetto dell’archivio, cioè il documento di carta  è quasi scomparso a favore del bit, unità di misura della civiltà digitale e delle sue testimonianze immateriali. La vita quotidiana ci dice, per ora, che la rivoluzione informatica ha portato ad una crescita esponenziale della carta nel mondo del lavoro, ma questa pare essere una tipica “gobba” di una curva evolutiva verso la digitalizzazione totale del documento aziendale e non. Pur mettendo da parte, ma solo per incompetenza di chi scrive, la questione complicatissima della conservazione della memoria digitale (dall’hardware al software), resta il tema dell’accesso e dell’”allestimento” del patrimonio archivistico digitale del futuro, il cui spazio “naturale” è quasi certamente il web. Ma anche a questo proposito possiamo registrare una sorta di convergenza tra processi in svolgimento negli archivi e nei musei, laddove – in questi ultimi – la realtà virtuale pone rischiosissime sfide a quella tangibile. E’ però vero che gli “ambienti museali” di ultima generazione propongono una vastissima casistica di opzioni per la costruzione di “mondi” dove carta, oggetti tridimensionali, oggetti digitali coesistono e comunicano tra loro e con gli utilizzatori secondo percorsi in buona parte ancora in via di definizione. Quest’ultimo aspetto ci porta alla definizione di quella che è la matrice dell’ulteriore rivoluzione (dopo quella della New Museology degli anni ’70 e dopo quella determinata dalle New Technologies) in corso nei musei europei , rivoluzione forse definibile come strettamente concettuale o, se preferite, della inversione dei termini: sino ad oggi sono state le collezioni a definire i musei, oggi e domani saranno i musei (compresi quelli virtuali la cui sede sta nel web)  a definire le loro collezioni, il che comporterà il superamento, almeno in parte,  di tante categorie e steccati: forse anche di quelli tra musei e archivi.

Tre letture forse utili:
AA.VV., Alla scoperta delle carte, Quaderni della Fondazione Piaggio , II, 2004
M. Negri, Manuale di museologia per i musei aziendali, Rubbettino, 2004
M. Negri, The Museum Environment, Museu da Agua-APOREM 2006 (in corso di stampa).

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