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Giuseppe Berta, L’Italia delle fabbriche Ascesa e tramonto dell’industrialismo nel Novecento, Il Mulino, 2006, pp 293, €19,00
Recensione di Salvatore Vento

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Alla fine del Novecento l’Italia delle fabbriche non esisteva più, con questa affermazione inizia il bel libro di Giuseppe Berta che si legge come un romanzo. Si tratta di una sorta di atlante delle esperienze e delle culture che hanno caratterizzato l’industrialismo italiano inteso come centralità della grande fabbrica e del luogo di produzione su cui innestare progetti politici di cambiamento sociale. Il volume è suddiviso in tre parti: la prima prende in esame gli archetipi dell’industrialismo, il mito americano e l’ingegneria del fordismo; la seconda si sofferma sul ruolo della Confindustria, dell’Intersind, dell’Olivetti, del nuovo sindacalismo Cisl definito  laburismo cristiano; la terza parte narra il lungo tramonto, l’esperienza dei distretti industriali e l’emergere della media impresa. Particolare attenzione l’autore pone ai personaggi leader e protagonisti dell’ascesa industriale dell’Italia: da Adriano Olivetti a Enrico Mattei da Vittorio Valletta ad Angelo Costa e Giuseppe Glisendi.

Molti sono gli esempi del cambiamento tra primo e secondo dopoguerra. A tale riguardo la figura di Giovanni Mandelli risulta davvero esemplare. Lui era un militante socialista che aderì al comunismo gramsciano e in seguito con altri tre fonditori aprì una piccola officina a Borgo San Paolo, lo storico quartiere operaio della città. Il figlio Walter, compagno di giochi di Emilio Pugno, licenziato dalla Fiat e carismatico leader sindacale della Cgil torinese, diventerà capo della Federmeccanica nel 1973.

Un’altra personalità singolare è quella di Riccardo Gualino appartenente all’alta borghesia che non si piega ai voleri del regime e viene mandato al confino di Lipari dove scrive un romanzo centrato sulla crisi del ’29 e sulla mitica figura di Henry Ford. Sempre sui rapporti col fascismo era davvero strano l’ambiente in cui vivevano quei giovani ingegneri della Fiat che tutti presi dal lavoro rimanevano indifferenti alle mobilitazione oceaniche del tempo anche se il lancio della Topolino nel 1936, progettata da Dante Giacosa, diventò una grande festa popolare. Un’altra fucina d’innovazione sociale è stata la Scuola allievi Fiat dove dal dopoguerra all’inizio degli anni ’70  sono stati selezionati oltre 8000 ragazzi che in otto ore al giorno alternavano scuola e officina.

Una figura imprenditoriale spesso sottovalutata, e che invece Giuseppe Berta tende a valorizzare, è quella del genovese Angelo Costa presidente della Confindustria dal dicembre 1945: egli viene definito  liberista dialogante e rigoroso che, in un periodo di acceso ideologismo, cercava di persuadere con la forza delle argomentazioni. Costa era contrario ai Consigli di gestione proposti dalla sinistra, ma polemizzava anche con gli americani desiderosi di generalizzare il loro modello fordista e  proponevano l’espansione dei consumi dei lavoratori  per sconfiggere alla radice la presenza dei comunisti nelle fabbriche.

Rispetto alle posizioni confindustriali, Adriano Olivetti andava controcorrente e nel 1950, con un referendum tra i lavoratori, ratificava lo statuto del suo Consiglio di gestione che durerà fino al 1967. Tra i suoi collaboratori troviamo note personalità nel campo delle scienze sociali e della cultura: Franco Momigliano, Ottiero Ottieri, Franco Fortini, Franco Ferrarotti, Geno Pampaloni, Alessandro Pizzorno, Paolo Volponi.

Nei confronti dell’esperienza Cisl, Berta sostiene che la novità autentica del sindacato di Giulio Pastore e di Mario Romani consiste nella volontà di stabilire un confronto sistematico con la modernità industriale. Il confronto dei due modelli Cgil-Cisl viene così sintetizzato. Nell’orizzonte sindacale della Cgil l’impresa non c’è, ci sono l’industria, il capitale, il lavoro, ma l’impresa cioè l’organizzazione efficiente dei fattori della produzione no, mentre i laburisti cristiani hanno bisogno dell’impresa per prospettare per l’Italia un futuro industriale simile a quello dell’Occidente.

Per il presente e il futuro Berta ragiona intorno a tre questioni fondamentali. Se da una parte dà ragione al massimo teorico dei distretti industriali di piccola impresa (Giovanni Beccatini), dall’altro cita Marcello de Cecco il quale sostiene che con l’apologia dei distretti si dimentica che senza grande fabbrica non c’è ricerca e quindi prospettive strategiche. Il dato positivo dell’esperienza dei distretti è certamente il prevalere della cooperazione sulla gerarchia e la corresponsabilità nel processo produttivo; nel distretto è il sistema sociale a generare il senso di partecipazione alle sorti aziendali.

Analizzando i risultati delle indagini di Mediobanca e Unioncamere sulla vitalità delle imprese di medie dimensioni (dai 50 ai 499 addetti)  Berta sembra più propenso a parlare di metamorfosi economica e produttiva e non ancora di declino industriale dell’Italia. Il futuro è riservato alle “multinazionali tascabili”, a un “quarto capitalismo”.
Su quest’ultima affermazione chi scrive propone un maggior approfondimento proprio perché, prendendo a riferimento le indagini citate, si nota che soltanto il 4% del made in Italy -  caratterizzato dalla meccanica leggera, alimentare, beni per la persona e la casa - risulta impegnato in settori ad alta tecnologia. L’innovazione è elevata soprattutto negli aspetti dell'organizzazione commerciale (reti di vendita, pubblicità) e nella politica di prodotto, con una forte differenziazione dei prodotti, dei marchi e del design.

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