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Le fonti orali. Archivi, storie, passioni, competenze, progetti.
Poggibonsi, 20 e 21 aprile 2007
Recensione di Nadia Truglia

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Programma del convegno

Il palpabile entusiasmo degli studiosi di scienze umane ritrovatisi a Poggibonsi (SI) il 20 e 21 aprile scorsi, credo sia stato anche determinato dal potente titolo del libro che in occasione dell’incontro nazionaleè stato presentato e che ha dato “il la” all’evento. “I custodi delle voci" è infatti titolo doppiamente ammiccante e significativo per quanti sono variamente interessati al patrimonio orale e immateriale: “fontoralisti”, come li chiamiamo, ovvero studiosi che praticano ricerca sulle e con le fonti orali. Studiosi resistenti alla pratica dell’usa e getta e che dopo aver scoperto, ascoltato e riflettuto e scritto sulle “voci”, se ne fanno appunto amorevoli “custodi”.  

Un ritmo incalzante ha scandito una giornata e mezza di lavori. Il pomeriggio del 20 ha visto come protagonisti i curatori del libro, amministratori locali (Comune di Poggibonsi, Regione Toscana) e alcuni rappresentanti di Archivi orali toscani, accomunati nel considerare la raccolta, salvaguardia e valorizzazione delle fonti orali come opportuna e anzi auspicabile in virtù della loro potente valenza culturale e sociale. Così tanto Pietro Clemente quanto Gian Bruno Ravenni, hanno rivendicato con forza la necessità di un impegno serio e costante delle Amministrazioni locali nella tutela di Archivi, Musei e Biblioteche, considerati ormai dal Codice dei beni culturali e dalla comunità scientifica, efficaci strumenti di politica culturale e di inclusione sociale.
Queste considerazioni sulle politiche culturali che riguardano o che dovrebbero riguardare gli archivi di fonti orali, hanno fatto da cornice alla successiva densa conversazione a più voci, coordinata da Natalia Cangi dell’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve S. Stefano (Arezzo) cui hanno preso parte i rappresentanti (fondatori o direttori) di alcuni tra i più significativi Archivi orali toscani. La polifonia delle testimonianze (che richiamerò qui in minima parte e a titolo esemplificativo) ha restituito convenientemente la realtà degli archivi orali, rappresentandoli attraverso una loro “storia di vita”. Così, l’intervento di Francesco (i “nomadelfi” di preferenza usano solo il nome proprio) dell’Archivio di Nomadelfia (Grosseto) ha attirato l’attenzione su un imponente archivio volto alla documentazione della vita della Comunità religiosa fondata da Don Zeno e soprattutto ha messo in risalto una macchina gestionale d’archivio di tutto rispetto. Ivan Della Mea, dell’Istituto Ernesto de Martino, ha ripercorso il percorso dello storico archivio (per la storia orale e l’antropologia italiana) che dagli anni ’60 a oggi, tra una migrazione quasi mitica, elettiva, verso sud (da Milano a Sesto Fiorentino) e titanici sforzi di prosecuzione dei continuatori dell’opera di raccolta del fondatore Gianni Bosio, giunge oggi a rischiare la chiusura, rinfacciando alla società la sua sciatta sprovvedutezza. E tra un colosso e l’altro, perchè la polifonia sia autentica, si inserisce Mario Catastini, ex maestro elementare che a Fucecchio (FI) dal 1961 a oggi ha raccolto 1091 documenti audio della vita dei suoi compaesani: nascite, funerali, acquisti al mercato, litigi, ecc. Si tratta di un Archivio singolare, che prende le mosse da un inesausto desiderio di socializzazione: “… io comprai il registratore per conservare la voce dei genitori, per eternarla, per averla sempre a disposizione, e con il Geloso feci questo miracolo perché lo nascosi e il microfono del Geloso era di una sensibilità incredibile, e quindi lo misi sotto il tavolo, aizzai i genitori, e ci voleva tanto poco, perché bastava che dicessi che il babbo oggi è ritornato più tardi, con tutta probabilità si è fermato all’osteria, e cominciarono e si bisticciarono e per me fu una grande soddisfazione. Perché inizialmente io lo avevo acquistato come uno strumento di conservazione della voce dei miei genitori e degli altri parenti […] soltanto negli anni ’70, quando ho cominciato a frequentare gli Archivi storici, soprattutto quelli correnti, […] il registratore è diventato per me uno strumento essenziale per fare queste cose, primo: per ricostruire l’identità delle comunità in cui operavo come insegnante”.

Negli archivi orali sono normalmente custoditi materiali prodotti da studiosi (perlopiù storici e antropologi) durante le proprie ricerche sul campo. A ricordarlo, nella mattina del 21 aprile, si è opportunamente aperto uno spazio di riflessione proprio sulle ricerche, andando ad osservare con occhio d’orefice lo scambio dialogico tra ricercatore e informatore. Elena Bachiddu ha così raccontato la significativa esperienza della più importante rivista del nostro settore di studi, Lares (Quadrimestrale di studi demoetnoantropologici), e del suo sperimentare forme di traduzione della fonte orale su carta stampata. Valentina Zingari ha fornito punti di fuga spaziali (raccontando la sua esperienza francese) e concettuali, narrando di progetti museografici costruiti a ridosso della raccolta di voci e storie. Il contributo di chi scrive, dal titolo “Vincenzo Agnoni, detto Scorzone, 86 anni, pastore, Cori”, ha tentato di riflettere su problemi anche etici legati alla ricerca sulle fonti orali e si è posto il quesito: nella misura in cui una simile ricerca è di natura relazionale, dialogica appunto, è possibile tracciare a priori perimetri conoscitivi non accettando la sfida di farsi anche indicare possibili percorsi di ricerca? Il contributo di Eleonora Censorii ha aperto al tema del teatro popolare; quello di Francesco Zanotelli ha ripercorso lo sviluppo dell’impresa nel territorio di Poggibonsi; Fabio Malfatti ha illustrato le potenzialità del software Transana per la ricerca e l’analisi dei documenti mentre Elio e Lucio Varriale hanno proiettato parte dei loro video che mettono in scena un archivio privato di famiglia. Maria Lai, una straordinaria artista sarda che ho avuto la fortuna di incontrare qualche giorno fa a Roma in occasione di un convegno (“Il museo verso una nuova identità”, organizzato da Marisa Dalai), ha detto che all’inizio del percorso di ogni museo metterebbe una frase che era solito ripetergli il suo maestro di italiano quando le leggeva poesie: “Non importa se non capisci, segui il ritmo”. Anche gli interventi eterogenei di un convegno, come la poesia o i percorsi museali, lasciano il segno se non sono banali e rassicuranti.

Il pomeriggio dello stesso giorno il microfono ha fatto il giro nelle mani di alcuni rappresentanti di Archivi chiamati da Pietro Clemente, coordinatore della tavola rotonda, ad esprimere un proprio punto di vista riguardo la proposta di Simbdea di creare una federazione di “istituzioni culturali”, una associazione fra le associazioni, intendendo con ciò invitare gli archivi di fonti orali ad aderire a Simbdea, in virtù di possibili convergenze pratiche, teoriche e di missione culturale e sociale. Clemente ha invitato a riflettere sul fatto che “per le attività che facciamo siamo in qualche modo fratelli, cugini associabili in un progetto che sintetizzerei con le parole di don Dilani: sortirne da soli è l’avarizia, sortirne insieme è la politica”. I partecipanti alla tavola rotonda hanno raccontato brevemente la storia dell’istituzione da loro rappresentata in quella che mi è sembrata una dichiarazione forte di identità (e del desiderio di non rinunciarvi). Ciò nondimeno, tutti hanno risposto positivamente all’invito prendendo in considerazione l’idea di cambiare ognuno il proprio statuto. Solo il tempo ci dirà se quella che Clemente, rifacendosi a Walter Benjamin, ha definito “l’infanzia di un evento” avrà vita futura, ma vorrei sottolineare il “dato” del diffuso, anche se cauto, desiderio di uscire da rigidi e isterilenti confini disciplinari. Mi pare qui pertinente ricordare a titolo esemplificativo la sostanza dello scambio tra Giuseppe Paletta e Pietro Clemente: il primo, invitando a vedere l’impresa come comunità, cultura, auspicava per il suo studio approcci euristici non solo storici ma piuttosto facenti capo alla metodologia antropologica (con studi su immaginario, simbolismo, rappresentazione, ecc.). Clemente ha risposto all’invito ringraziando Paletta poiché “dalle sue parole viene la sollecitazione ad allargare l’immaginario antropologico della modernità”. Entusiasmanti speranze per chi ritiene anacronistici e futili i campanilismi disciplinari.
In conclusione il convegno ha donato salutari aperture e espresso necessità e forse volontà forti di connessione: tra storici e antropologi, tra studiosi e amministratori, tra accademie e imprese, tra musei e archivi. Il collante di tutto ciò dovrebbe essere costituito dalle fonti orali, che pure sono trattate e interrogate nei modi i più diversi. Ora sono proprio le “voci” ad esser chiamate a farsi “custodi”.   

 

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