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Convegno europeo dei musei d’impresa: qualche considerazione in chiusura della seconda edizione
di Chiara Nenci
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All’alba del XXI secolo, in un’Italia in cui idealismo crociano e ideologia gentiliana per lungo tempo non hanno permesso di trattare i prodotti industriali come espressioni del gusto e dell’arte di un’epoca e di una civiltà, al primo Convegno europeo dei musei d’impresa che si era tenuto il 14 e 15 novembre 2008 a Milano (promotori la Provincia di Milano e l’Associazione Museimpresa, in collaborazione con Assolombarda), è seguito quest’anno il secondo appuntamento. All’interno di un articolato calendario di eventi nel corso della consueta Settimana della cultura d’impresa (14-23 novembre 2008; 13-22 novembre 2009), i lavori si sono nuovamente svolti nella sede di Assolombarda, dove si è tenuta la prima sessione (2008: Le attività del museo per valorizzare l’impresa: esperienze a confronto. 2009: Musei d’impresa in Europa), mentre la Provincia ha reiterato l’ospitalità di Palazzo Isimbardi per la seconda e la terza sessione (2008: L’impatto sul territorio e sul contesto sociale; Reti e associazioni di musei d’impresa. 2009: Il Museo d’impresa come fattore di creatività e innovazione; Celebrations).
La dimensione europea dell’incontro, volta a promuovere la conoscenza reciproca per un futuro sviluppo di relazioni nell’ottica di una coesione sovranazionale, ha consentito agli uditori, del settore e non, di cogliere le affinità e le dissonanze esistenti nell’intendere la cosiddetta “cultura del prodotto”. Rende merito agli studi pionieristici di Massimo Negri , sentire che, vista dall’estero, è buona la sensibilità italiana per il patrimonio dell’impresa inteso come fonte educativa interna, e sapere che è ancora tenuto sotto controllo l’effetto marketing dei musei d’impresa (Franz Heberstreit, Siemens Forum); anche se in alcuni casi (Museo Ducati a Bologna e Galleria Ferrari a Maranello) appare evidente la missione di un museo “motore di pulsioni”, in cui la passione per lo sport si trasferisce al tifo per il prodotto, pluridecorato anche nelle forme allestitive di un museo che deve trasmettere la solidità di un mito e rischia così di appiattirsi su un opaco rispecchiamento aziendale: «Se l’azienda va bene, il museo va bene» (Livio Lodi, Museo Ducati).
In realtà, Tommaso Fanfani da tempo ormai, e ancora nell’intervento che aveva inaugurato le giornate dello scorso anno (di cui sono oggi disponibili gli Atti), ha dimostrato che anche in caso di turbolenze nella storia dell’impresa il museo deve avere quell’autonomia che gli consenta non solo di resistere ma di svolgere anche in quella congiuntura una specifica funzione. Analogamente, la cultura del prodotto può diventare “altro” rispetto al prodotto stesso, per esempio in una consapevole forma di corporate social responsability, come nel caso della Guinness che si fa promotrice di campagne contro la guida in stato di ebbrezza (Valentina Doorly, Guinness Storehouse, Dublino).
Il caleidoscopio delle relazioni ascoltate l’anno passato rimandava fisionomie di musei molto diverse tra loro: dal Museo della cravatta di Zagabria allo showroom (perché di showroom si tratta, e non di museo) della Sony sulla Fifth Avenue ; dal portoghese Museu de Agua Epal (nato da una privatizzazione ma inteso come museo di un distretto delimitato dalle tracce dell’acquedotto) all’eccellenza del Museo Ferragamo , che ricomprando all’asta e rimettendo in produzione la scarpa esclusiva disegnata per Marilyn ha rimescolato le carte e posto in gioco lo statuto stesso dell’oggetto moderno, dominato dalla contrapposizione modello/serie. L’impianto delle tre sessioni si è ripetuto sostanzialmente immutato anche quest’anno, tra l’altro dando nuovamente voce ad alcuni dei relatori della passata edizione. Il senso di un procedere, per così dire, “vetrinistico”, attraverso la presentazione di “casi di valorizzazione aziendale”, è stato tutto sommato ancora più evidente quest’anno, e non solo per la scelta di dedicare espressamente la terza sessione alle celebrazioni messe in scena da alcuni grandi brand (i 60 anni della Kartell, i 50 della Mini e il centenario che festeggerà l’Alfa Romeo nel 2010). Forse, se dal numero zero dell’edizione pilota si era usciti un anno fa con molti quesiti, stimolati da presentazioni di ampio spettro, da questa seconda edizione ci si sarebbe aspettati che non fosse lasciato nuovamente così in ombra il dibattito generale su alcuni temi che avrebbero meritato maggiore spazio.
Ne segnaliamo solo alcuni:

  • il ruolo dell’archivio delle imprese «prerequisito più qualificante per allestire un museo provvisto di una missione culturale che vada oltre la mera collezione di oggetti» (Vittore Armanni in «Culture e impresa», n. 6 ), a proposito del quale la presentazione di Giuseppe Paletta del progetto REMIND nel 2008 aveva indicato chiaramente quanto complesso possa diventare il racconto imprenditoriale quando si integri l’archivio dell’azienda con l’archivio degli individui. In questo senso l’intervento sul Museo Alessi di Francesca Appiani ha avuto il merito di rilanciare questo tema, e non a caso la stessa Appiani ha definito “ibrido” il caso Alessi proprio perché bilanciato non solo sull’attività squisitamente museale dedicata alla collezione, ma anche sulla organizzazione “viva” dell’archivio che racconta la storia degli oggetti, anche di quelli mai prodotti. Un racconto di 18.000 oggetti attraverso i quali si potrebbero ricostruire «i rituali della tavola da un punto di vista sociale e antropologico» e nel quale davvero la collezione del museo postmoderno sarebbe punto di arrivo e punto di partenza di altre narrazioni, come intendeva Baudrillard.
  • il rapporto con i musei tradizionali, oggi che i musei della Scienza e delle Tecnica a loro volta aprono le porte alle aziende, partners di progetto in aree espositive dedicate ai materiali di loro produzione, come nel caso di Mapei e Vinavil al Museo Leonardo da Vinci di Milano.
  • La rappresentazione/il riconoscimento dei lavoratori, protagonisti rimossi che compaiono sulla scena principalmente, se non quasi esclusivamente, quando il prodotto è «molto poco sexy» (Montemaggi a proposito della Fondazione Dalmine).

In conclusione, non possiamo non ricordare la provocazione di Philippe Daverio che, invitato a chiudere la passata edizione, aveva definito i musei d’impresa l’attuale strumento consolidante della corporate identity della società industriale, funzione affidata un tempo ai Musei Vaticani dalla Chiesa cattolica e alla Galleria degli Uffizi dalla dinastia dei Medici. Di fatto, che si voglia portare il turismo museale onnivoro e indistinto dei nostri giorni a percorrere “le vie dei prodotti”, in un moderno grand tour che un tempo avveniva sulle tracce delle più prestigiose collezioni d’Europa, lo si deduce anche dalla recente pubblicazione della guida Turismo industriale in Italia. Cultura d’impresa tra memoria e futuro (Touring Club 2008, realizzata con la collaborazione di Museimpresa). Bello sarebbe se, all’uscita da questi musei, si fosse contratta la malattia dell’intraprendere, del saper fare e del saper produrre, perché è davvero questo che i musei d’impresa dovrebbero trasfondere, per non rischiare di essere cimiteriali famedi di grandi brand, postmoderne enciclopedie dove si celebra «l’immensa vegetazione degli oggetti come una flora o una fauna, con specie tropicali, glaciali, con brusche mutazioni, con specie in via di sparizione» (Baudrillard), o peggio ancora, luoghi in cui l’heritage si fa marketing e la messinscena del sapere passato diventa «un ottimo affare» per cui «questa cosa della cultura d’impresa comincia ad essere interessante» (Montemaggi).

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